#6 - FINE DI UNA STAGIONE

FINE DI UNA STAGIONE: #6 ARGO di Ben Affleck – Oscar miglior film 2013

REGIA: Ben Affleck
SCENEGGIATURA: Chris Terrio
CAST: Ben Affleck, John Goodman, Kyle Chandler, Victor Garber, Michael Parks
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012
USCITA: 8 novembre 2012

MOTORE… AZIONE!

C’è una sequenza chiave in Argo, che racchiude cuore e intenti della pellicola tutta: gli “ospiti” americani di stanza in Iran, convincono le guardie militari della bontà veritiera delle loro “identità”, illustrando degli storyboard. Un passaggio che per centralità d’animo può essere paragonato a quanto accadde in Almost Famous, quando la band documentata dal giovane e autobiografico Crowe esorcizzò la propria morte, prima umana e poi artistica, intonando all’unisono Tiny Dancer di Elton John. Manciate di minuti che si rincorrono per immagini, utili a ricordarci quanto il cinema, come la musica del resto, possa persino salvare delle vite umane.

E’ cresciuto Ben Affleck, non solo perché oggi sfoggia una barba adulta abbinata a una giacca il cui taglio risale al secolo scorso. Affleck è cresciuto perché, giunto alla terza fatica dietro la macchina da presa, può finalmente sbattere in faccia al mondo un talento cristallino, da fare invidia ai più, sommato a una coscienza politico-civile che, eccezion fatta per il Clooney regista, non ha eguali nel panorama hollywoodiano contemporaneo. Affleck impugna le redini di una storia che sembra immaginata, pensata e scritta per il cinema, nonostante sia a tutti gli effetti vera. La romanza il giusto, scattando d’intuizione lì dove il mentore e qui produttore Clooney aveva esordito, tenendo bene a mente i prestigi narrativi di Confessioni di una mente pericolosa.

In Argo nulla è frutto della coincidenza, a partire dal “comprimario” John Goodman, guarda caso protagonista di quel Matinee che Affleck quasi pareggia per guizzo d’autore, un passo al di qua dalla trappola del manierismo: un’altra crisi internazionale vista attraverso gli occhi di un artigiano del cinema, ovvero l’identico colpo di genio che armò l’immaginazione di Joe Dante, trasformato ora nell’occasione utile per ammirare colui che nel 1993 fu Lawrence Woolsey, indossare i panni di John Chambers. Affleck guarda Dante reinterpretandone la lezione attraverso lo spirito fieramente democratico del Clooney di Goodnight and good luck: due americani che votano Obama ricordandogli quanto la politica estera sia pari, per importanza, a quella interna. Il risultato è Argo, quindi gli Stati Uniti dell’epoca Carter immortalati da un obbiettivo settato a metà tra documentaristico e retrò, come se lo Spielberg di Munich incontrasse un fan di Mad Men catapultato sul finire dei ’70; quando il “miracolo sul ghiaccio” era ad un passo dal compiersi. Quest’ultima però, è un’altra storia.

Cinema e televisione, ecco il punto. Il primo corre in metaforico aiuto della seconda citando Quinto potere con fare autoreferenziale, all’interno del tubo catodico. Mentre la seconda offre al primo alcuni dei suoi interpreti recenti meglio rappresentativi – Titus Welliver (Deadwood, Sons of Anarchy), Kyle Chandler (Friday Night Lights), Victor Garber (Alias) – ingranaggi chiave come il Jon Hamm di The Town, seppur in ruoli secondari. Infine il cinema, alleato prezioso della drammatica realtà nell’ispirare la missione impossibile tramite la visione de Il pianeta delle scimmie, per poi mettersi a nudo, spogliando i suoi interni di sogno e farsa, consentendo così all’illusione di tramutarsi in storia vera, appena prima di celebrare l’ennesimo, meraviglioso e riuscito inganno, nella cameretta di un bambino: tra un poster di Star Wars e uno scaffale di action figures.

Verità e finzione che si sovrappongono, incollando allo schermo anche il più preparato in materia tra gli spettatori, disegnando vettori di tensione che di recente solo l’Operazione Valchiria di Singer era riuscita a tracciare. Argo si realizza in ogni sua sfumatura grazie a un più che mai pensante cervello registico, che già da attore si introdusse nella pancia storica di Hollywood interpretando il mai troppo citato Hollywoodland; adesso story teller maturo, capace di entrare di diritto nella storia del genere spionistico in quanto magistrale nell’alternare eccellente senso del ritmo a un dosaggio della suspense prossimo alla perfezione, retaggio dei grandi del passato: Fred Zinnemann de Il giorno dello sciacallo o il Coppola de La Conversazione.

E poi l’Affleck fisico, lui che in Gone baby gone si travestì da Clint Eastwood lasciando il centro della scena al fratello Casey, lui che in The Town permise all’istrione Jeremy Renner di rosicchiargli progressivamente il palcoscenico, si riprende qui centralità, applausi e brividi sinceri da parte di chi spalanca la bocca, comodamente seduto dall’altra parte dello schermo. Convinto, mai come questa volta, di aver assistito al definitivo salto di qualità da parte di un autore finalmente meritevole, all’indomani della visione di Argo, di venir considerato e nominato con la riverenza che solo i grandissimi meritano. Signori, siamo di fronte a un futuro mostro sacro. 

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