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READY PLAYER ONE, DI Steven Spielberg: Play it again, Steven

READY PLAYER ONE

Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Zak Penn, Ernest Cline
Cast: Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, T.J Miller, Simon Pegg, Mark Rylance
Produzione: USA, 2018

L’orizzonte di riferimento, ovviamente, sono gli anni 80, quell’intero universo di senso, tra game Arcade, fumetti, cinema, musica. È un’adunata generale, una festa collettiva e orgiastica in cui partecipano prelievi diretti dell’immaginario, citazioni 2.0, a fondare un nuovo sottogenere – l’easter egg movie – che con Ready Player One può iniziare e finire. Ce n’è per tutti, anche per i cinéphiles duri e puri, vedasi l’inserto tutto dedicato a Shining e ai limiti del filler (intenzionale) che alza l’asticella di fanservice. Nirvana per nerd, isola felice e paradisiaca, mega reunion di giochi d’infanzia.

Su un piano di discorso che rilevi post-cinema, post-contemporaneo, iperconnessione, mascheramento del/nel digitale, Second Life, sfruttamento delle nuove tecnologie, dispersione e frammentazione della realtà nella dimensione impalpabile della virtualità, Ready Player One non dice nulla di innovativo. Dice invece qualcosa di interessante sulla dimensione della fantasia sconfinata non come luogo d’evasione e scollamento irresponsabile dal reale bensì come mezzo per trovare la forza di leggere meglio, e trovare lo slancio per mutare in positivo quella realtà; e al tempo stesso e proprio per questa spinta di revitalizzazione trasformativa, tornare a desiderarla.

L’oceano dell’immaginario collettivo e dell’immaginazione condivisa, dunque, come aggregatore comunitario e fronte comune contro lo sperpero funzionale del capitale aziendalista, la cui concezione rimane limitata a una frontiera di exploitation rincitrullente, che necessita di ridurre quella propensione al desiderio e alla creatività a un balocco, ad un opium, al panem et circensem.

 

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E poi c’è il saluto, il frammento testamentario del Creatore timido, del Maestro di cerimonie eremitico (Mark Rylance è la faccia, la scena, la cosa più bella di Ready Player One); “se lui è morto, allora tu cosa sei?”. Ecco il cinema come eterno ologramma live desiderato e desiderante, che incorona il prescelto presentandogli il proprio fanciullino interiore che non ha mai smesso di giocare al suo fianco, che rimette alla vita e mantiene in vita i suoi artefici eternamente solitari e imperfetti per il proprio presente, inadatti alla propria modernità. “Grazie per aver giocato al mio gioco”: non solo per rendere tollerabile una vita ordinaria, ma come leva e motore propulsivo a metterla in sesto radicalmente, a goderne attivamente, a farle acquistare una coscienza di sé, del proprio ruolo, in una comunità e in un cuore.

Ready Player One non è dunque (solamente) un’operazione-nostalgia quanto piuttosto il ripensamento di tutto il percorso immaginifico fatto in una vita, nel privato e nel personale di ciascuno di noi, del suo scopo ultimo e del suo lavoro, del suo essere ausilio essenziale per determinare e definire un’identità.

 

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