venezia-2018

Suspiria – Luca Guadagnino: A Mother Revolution

Regia: Luca Guadagnino
Sceneggiatura: David Kajganich
Cast:  Tilda Swinton, Dakota Johnson, Mia Goth, Jessica Harper, Chlöe Moretz, Angela Winkler, Sylvie Testud, Ingrid Caven
Montaggio: Walter Fasano
Anno: 2018
Produzione: Italia, Stati Uniti d’America

 

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Ogni tanto arrivano dei film capaci di traghettarti, o di più violentemente scaraventarti, trascendendosi, al di fuori della comfort zone cinematografica, quella più accademicamente percepita come “naturale”: il “bel canto” della bella immagine, il formalismo estetico che deve tutto il suo imperativo all’ejzenstejniano (e russo) strutturalismo di cui, meno di cent’anni dopo, di tanto in tanto riecheggiano ancora le voci; quel formalismo che destrutturava la materia prima, il linguaggio (scritto e visivo, ma pure percettivo), come dei lego di volta in volta diversamente significanti e in sé vuoti, ha poi finito per depurarsi della propria origine storica per rimanere una più vuota carcassa del concetto di “piacevole”: piacevole all’occhio, curato nella patina dell’immagine, tanto che di cinema “estetico”, tutto attento alla semantica e allo scivolamento sinuoso dei quadri, si parla spesso e volentieri, con le divergenze assolute tra i casi, per i cineasti imperativi del contemporaneo: Fincher, Winding Refn, Anderson, per dire dei più “celebri”. Nessuno si troverebbe in difficoltà a lodarne la compattezza visiva, “formale”, per l’appunto. Se non fosse che, per tanti altri, la costruzione semantico-formale smette di essere il veicolo del significato per ridursi a barocchismo gratuito. Ma il cinema non è mai stato solo questo, giacché non si spiegherebbero, altrimenti, i recuperi “critici” degli ultimi trent’anni dei B-movie italiani (e non), in tutte le loro ramificazioni estreme e borderline. Dall’altra sponda del fiume, l’avanguardia, il documentarismo, il cinéma-vérité, partito con intenti anti-spettacolari, sempre pronto a farsi, suo malgrado, maniera e leitmotiv ingabbiante (a quanti ammontano gli epigoni dei fratelli Dardenne?). Poi, ogni tanto, si diceva, giungono come meteoriti degli oggetti non meglio identificati, che qualcuno definirebbe dei pastiche, o dei museali horror vacui postmoderni, o ancora delle furbizie produttive, tutti pronti a rimarcarne la genesi da installazione contemporanea: art house in maschera. Ammiccanti e plastici come il vogueing, conservano il loro status di superficie trasparente in cui si specchiano situazioni ammantate da un’aura lì pronta a servire il banchetto del proprio edonismo. È senz’altro vero per alcuni di questi, meno per altri, che, di un certo immaginario rubano degli orpelli, ma con sintassi e intelaiatura procedono per direzioni tutte opposte e contrarie. È così che “Suspiria” di Luca Guadagnino è stato accolto, frainteso, mal tradotto, guardato fino a un certo punto. La mescolanza, il remix, degli stili che un proto-remake come “Suspiria” si porta dietro non è sufficiente a dichiararne il carattere di centrifuga bianchi con colorati eccessiva e rubiconda: sotto la maschera dell’operazione mastodontica, orchestrale, kitsch, di cui è necessario cogliere gli aspetti ricercati e voluti, si cela l’intento del praticare un cinema libero, che sfregia le convenzioni armoniche del linguaggio per inseminare un atteggiamento iconoclasta, creativo, che sfrutta la produttività infinita della cultura in senso lato. Dalla cura estetica per quella “bella immagine” ci porta, bruscamente e senza protezioni, nella terra stridente e dissonante, stonata, del gusto per il cinema di terza categoria, sotto le spoglie del body horror e del videomaking, del raccapricciante, dopo aver posto le premesse per una creatura tutta limpida, geometrica, ordinata e nazista. La fecondazione è totale: substrati si aggrovigliano in un’orgia di dislivelli narrativi (Storia, quest, orrore, identità, amore, politica) che, non a caso, culmina orgasmante con un’apocalisse che di bello non ha niente, per ogni nuova Madre che rinasce e che assolve le sue bambine, nasce e fiorisce un Nuovo Orrore, l’America del dopoguerra sulla maciullata Europa e sulla sua Colpa.

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È un formicaio di allusioni letterarie, cinematografiche, ma soprattutto ideologiche, rifiutabili per il peccato di farsene incetta ingorda, portando al limite la sopportazione intellettiva del fruitore, in un tentativo di scossa non tanto epidermica, gastrica, quanto concettuale: “Suspiria” rinuncia per sempre alla necessità dell’horror “medio” di spaventare, per veicolare un terrore più profondo, quello del pensiero acritico che di fronte al guazzabuglio di fonti e significati si trova costretto alla riflessione. Via allora i synth ammalianti e modulari per lasciar spazio alla litania triste di un’impotenza quasi autistica, per l’insondabile limbo delle devastazioni (sempiterne) della Storia. Le Streghe, chi l’avrebbe detto, sono vittime a loro volta (e impugnano la violenza – la magia – come unica via di resistenza e riappropriazione storica, per il loro esser state ridotte a residuali minoranze, le classi subalterne di eco gramsciano letteralmente buttate al di fuori della Storia); Suzie risponde al proprio destino di lordatrice universale, nella sua doppiezza di succube – carnefice, come ogni Madre: anzi, è proprio quando abbraccia il suo Femminino e manda a riposare le streghe (stanche di resistere) che in lei, resa forte dal nuovo potere identitario, fiorisce la missione obliante della negazione, della cancellazione della responsabilità, che porterà Klemperer e chi come lui (come noi) a dimenticare, a ripetere. A ben vedere “Suspiria” fa piazza pulita anche dei generi (e della lotta fra): non è un film di donne per le donne, bensì un luogo Altro dove il genere è neutro, e dove semmai è la Storia delle minoranze (ebrei, intellettuali, donne) a vincere sul discorso di genere, di cui il film è assolutamente spurio. I personaggi di questo “Suspiria” sono simboli, archetipi partecipi di un più ampio inconscio collettivo che esplode nella vicenda psichica di un inconscio personale, quello dello psicanalista (!) Klemperer. E anche l’emanazione di un Super Io, Suzie, si rimette a una donna svalutata dalla propria madre che risorge indefessa e impenitente come una creatura nuova, ora però maniacalmente onnipotente. Per rimandarne la foga, la psicosi, “Suspiria” diventa un gioco di specchi e prismi rotti e ri-montati da Fasano, che alla mano pesante del formalismo (vero) guarda con coscienza teorica: tutto “Suspiria” sarebbe stato impossibile senza il culto per un Cinema che è anche speculazione (anzi, un cinema che è già stato speculato abbastanza, e allora viene agito squadernandone le sicurezze e le prassi in campo in una traduzione che è, piuttosto, una transustanziazione). Da Argento e Guadagnino c’è il salto coraggioso di chi ha compiuto il giro completo ed è in grado di portare a termine una trasfigurazione tale da sottolineare un cristallino rispetto. “Suspiria” è anche un’opera che sa di voler stimolare gli appetiti analitici, al costo di rischiare indigesta. È un’opera che ricerca il bello distruggendone la sua effige – “we need to break the nose of every beautiful thing” – cercando un’altra via, non ex novo (come si potrebbe?), ma destrutturando e ricomponendo. “Suspiria” rifugge l’immedesimazione emozionale, o il turbamento psicologico in senso stretto: il suo è un pugno tutto mentale, per chi vuole mettersi a leggere. Un labirinto mosaicato stordente, una ghiacciaia siderale dove le rimanenze della Storia si staccano come stalattiti, mentre, al di sotto delle stratificazioni geologiche, c’è comunque un cuore inciso sulla corteccia. Quello è l’unico segno storico evidente, il reperto concreto che resiste oltre le fantasmagorie mistificate della Storia dell’umanità: la storia personale, la propria, a fanculo il resto. “Suspiria” è anche un teorema sulla psicosi come generatrice di Arte: cioè di come l’allucinazione o la fantasia, nella riabilitazione terapeutica dell’individuo, non smetta di creare mondi compositi, logici e stimolanti. Solo l’arte può salvarci.

 

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