Love will tear us apart

Love will tear us apart – Amori in malora: LOLITA di Adrian Lyne

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REGIA: Adrian Lyne
SCENEGGIATURA: Stephen Schiff
CAST: Jeremy Irons, Dominique Swain, Melanie Griffith, Frank Langella
NAZIONALITÀ: USA/Francia
ANNO:  1997

“Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano…”. Certi altri, però, vanno solo in una direzione: in malora. Tuttavia sono quegli amori impossibili, mai consumati, spezzati dalle contingenze della vita che finiscono per cambiarti, perché risultano deflagranti e incontenibili, pericolosi per coloro chi li vive e per coloro che vi orbitano attorno. Quando si riflette su un amore di questo tipo non si può fare a meno di pensare al legame più ostacolato di tutti i tempi, impedito dai legami familiari, dalle convenzioni sociali, dalla morale, dall’età, dal tempo e, non ultimo, dalle stesse parti in causa. Eh sì, perché se da un lato si tratta di un amore inammissibile, dall’altro è un amore instabile, fatto solo di danni collaterali, di esacerbazioni, come la gelosia, il senso di colpa, la sfida, l’orgoglio, il piacere del proibito e l’ossessione, usati come merce di scambio per mantenere vivo un rapporto che, altrimenti, non avrebbe avuto motivo di esistere.
La storia d’amore a cui facciamo riferimento è quella di Lolita, straordinaria vicenda passionale raccontata da Vladmir Nabokov e adattata per lo schermo prima da Stanley Kubrick (1962) – che ne offre una versione asciutta e analitica, offrendo un taglio più noir alla vicenda – e poi da Adrian Lyne (1997) – che diversamente sposa la versione letteraria, connettendo alle strategie narrative attuate nel testo, la verve immaginifica propria di Nabokov.
La storia, ormai notissima, racconta dell’ambiguo rapporto tra il maturo professore Humbert Humbert (Jeremy Irons) e la dodicenne Dolores Haze (una straordinaria Dominique Swain). Humbert fa la conoscenza della giovane Lolita durante il suo soggiorno presso la casa della signora Charlotte Haze (Melanie Griffith) e ne rimane subito ammaliato. Sposata frettolosamente la madre, con il solo interesse di restare accanto alla ragazzina, rimane presto vedovo e patrigno felice. Dopo aver prelevato Lolita dal campo estivo, tenendole nascosta la morte della madre, Humbert intraprende un lungo on the road con la giovane, durante il quale tenterà in tutti i modi di farsi amare, così da giustificare (almeno in parte) il senso di colpa dovuto al suo desiderio pedofilo e incestuoso. Purtroppo per lui Lolita non lo amerà mai, ma non rinuncerà a mettere in atto un gioco fatto di seduzione e ricatto, praticato tra la più autentica ingenuità e la più subdola consapevolezza.
Ci sembra di poter dire che l’opera di Adrian Lyne non solo sia più fedele al testo – per quanto il film di Stanley Kubrick si avvalga di una sceneggiatura scritta dallo stesso Nabokov – ma che trasudi la stessa “casta morbosità” aggirata magistralmente dalle elegantissime parole dell’autore letterario e sia dunque, in questo senso, più romantica. Sì, è vero, Humbert è un maniaco, ma lo riconosce, a tratti si punisce per il suo amore “sbagliato”, e le volte in cui cede al desiderio non è mai dettato dai più bassi istinti, non si scaglia sulla sua Lolita come un predatore affamato. Humbert la corteggia, la celebra come una musa, le si sottomette come uno schiavo. Lyne interpreta questo corteggiamento proibito indugiando sui gesti, i volti, abbagliando con l’uso di una fotografia calda e vivace, in cui spiccano dettagli voluttuosi come i capelli ramati, lo smalto e il rossetto di Lolita, ma anche gli oggetti che lei stessa maneggia, come i giochi, le caramelle, gli abiti e le bevande. Diversamente, e per contrasto, Humbert è un personaggio spento, a tratti illuminato dalla luce riflessa della sua Lolita. Lyne provvede a ravvivarne la figura quando sorride o si eccita per le gesta sensuali e impacciate della ninfetta. Diversamente cupo, anonimo ed evanescente è la nemesi di Humbert, il viscido Clare Quilty (Frank Langella), che sguazza all’ombra della sua perversione. Messo tra queste due figure, Humbert non sembra mai un personaggio positivo, ma certamente nemmeno negativo, e il regista ne descrive la funambolica passione, raccontando il folle desiderio e la solida tempra, la totale devozione e l’esclusivo dominio. Ai suoi lati due personaggi assolutamente incontrollabili, che fanno il bello e il cattivo tempo della sua vita estrema, che oscilla costantemente tra la felicità e la paura, il godimento e il dolore, tutto e niente – che poi sono i classici sintomi dell’innamoramento, qui acutizzati fino allo stremo delle forze.
Questo taglio fiabesco della storia, in cui l’emergenza degli eventi morbosi viene quasi soppressa – come il personaggio tutto di Clare Quilty, che viene continuamente oscurato – rende la vicenda sì ambigua, ma anche poetica e suggestiva. Alla stessa maniera, per raccontare alcuni necessari dettagli morbosi (come il sesso tra Humbert e Lolita e l’omicidio di Quilty), Lyne si serve di un registro giocoso, quasi onirico e, anch’esso, molto ambiguo. Saltano alla mente le ombre nude che si dimenano sul letto tra soldi e desiderio, o la sequenza finale della fuga tra i corridoi vuoti della spettrale dimora di Quilty. La colonna sonora di Ennio Morricone contribuisce ad ammantare la storia di un’epicità dolorosa, come se quella fosse l’unica storia d’amore che valesse la pena raccontare.
La storia, come si può facilmente immaginare, finisce in maniera tutt’altro che lieta. Lyne tratteggia questi momenti finali della vicenda servendosi di un’illuminazione virata seppia, come se quelle pagine nuove della vita di Lolita fossero pagine invecchiate e ingiallite dal tempo trascorso e perduto. In un certo modo giustizia sarà fatta, ma l’amore avrà perso ancora…

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