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Ladri di (polvere di) stelle: THE BLING RING di Sofia Coppola

the bling ring (2)

REGIA: Sofia Coppola
SCENEGGIATURA: Sofia Coppola, Nancy Jo Sales
CAST: Katie Chang, Israel Broussard, Emma Watson, Taissa Farmiga, Marc Coppola, Leslie Mann
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

Le ragazze interrotte di Sofia Coppola sembrano rimaste ferme ai nastri di partenza del suo cinema, a cincischiare laccandosi le unghie, a ciondolare con indolenza sul ciglio del vuoto, rovistandone con gli occhi le luminosità effimere. Lo sguardo della Coppola così bene aveva funzionato nelle inedite atmosfere nipponiche di Lost in translation (con quelle due solitudini catapultate in un ignoto singolare e sussurrato) e si era espresso al meglio (e – ora possiamo affermarlo con certezza – al massimo) nell’apatico e opulento dipanamento esistenziale della principessa triste e annoiata di Versailles (mancava che la tagline del film fosse “Maria Antonietta, c’est moi!”), bambina/donna persa in una incauta, ingenua, innocente indifferenza, nel disorientamento della stasi, in una crescita sempre troppo tardi e troppo inutile.

Ma la reiterazione di tale approccio è ormai invischiata in un circolo vizioso e irreversibile, svogliato, che non possiede la versatilità e la capacità di adattamento alle storie: succede così che Somewhere fosse pretenziosa ripetizione non soltanto del suo cinema, ma anche di altri, e che questo Bling Ring si sgonfi nell’insopportabilità di una visione che non riesce ad andare (e ad esprimere niente) all’infuori di se stessa.

Quella dei ladruncoli ricchi che rubano ai ricchissimi per assorbirne il lifestyle era un soggetto ideale per lo sguardo catatonico e in perenne apnea (ma incapace d’immersione, e che resta vicino alla superficie delle cose) della Coppola: un mondo inerziale, plasmato in una cultura del vuoto che è culto di se stessi, in cui l’appartenenza può essere solo certificata e attestata dal possesso. Quella dei giovani rapinatori non è emulazione quanto derivazione spontanea, contemporanea e diretta della generazione dei social network, dell’immediatezza del tutto in un clic e del tutto subito. E che fa sì che la loro vita e il loro universo sia un unicum contaminato, caleidoscopio piatto di mille frammenti cosmopolitan. In cui, come affermato esaurientemente da Salman Rushdie nientemeno che ad Angelia Jolie (!), i nuovi dei dell’Olimpo sono le starlette dell’empireo hollywoodiano – o anche solo della polvere dorata dei magazine, dei reality, della cronaca nera, degli spettacoli, della passerella. E dunque, così come i greci e i romani ascoltavano le leggende in cui Zeus correva dietro le gonnelle mortali, allo stesso modo (in maniera più estrema e totalizzante) noi vogliamo conoscerne i siparietti, gli altarini, gli scheletri nell’armadio. Ma al contrario di allora, oggi, nel XXI secolo, non vi è separazione tra i mondi: e se il digitare gossip e l’intrufolarsi nelle regge dei vip derubandoli della loro pelle, della maschera esteriore, è un po’ come rubare il mantello di un re, e non c’è più differenza sostanziale, tutto è un unico flusso frastagliato, polifonico, irrespirabile. Foto tag news clic flask link avanti e indietro, dentro e fuori e tutto nello stesso piano nello stesso mondo nella stessa testa, uniformata da una trasgressione che non ha meta ma nemmeno inizio né fine, un terminal di apocrife divagazioni/digressioni/dis-trasgressioni che sono solo il ruggito sfalsato dal make up di un leoncito spaurito e spelacchiato che non sa dove si trova, chi è, chi sono gli altri, cosa è diventato questo pianeta audiovisivo e cieco e sordo che ci urla addosso costantemente.

Ma tutto questo è un assunto che la Coppola spalma lungo i primi 15 minuti – e ok – per poi però limitarsi a vivere di rendita e di replica, in una rotazione esasperante e macchiettistica che non porta da nessuna parte (e non c’è intenzionalità in un film sul nulla fatto di nulla, semmai incapacità ed esaurimento). Una pellicola inabile a scegliere tra il grottesco e l’entomologico, e che pare fregiarsi dell’apparente distacco e dell’annullamento obnubilante; cosicché l’oblio anestetizzato si sfalda in una narrazione piena di sé, evanescente, implosa, in uno sguardo impotente che ripropone se stesso, il già detto (meglio) e il già visto (meglio). Banalmente, un prodotto annoiato; e l’impalpabilità della Coppola confina ormai irrimediabilmente con l’inconsistenza.

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