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120 BATTITI AL MINUTO di Robin Campillo: Breath of life

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Regia: Robin Campillo
Sceneggiatura: Robin Campillo. Philippe Mangeot
Cast: Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel, Antoine Reinartz
Produzione: Francia, 2017

Un groviglio innumerabile di corpi sparpagliati lungo una strada buia, sotto le luci di stelle fioche, le braccia aperte, il male incombente, il respiro della lotta addosso, la volontà battagliera che pulsa oltre i cuori. Chiedono aiuto, domandano perché, gridano di rabbia, mentre formano un arazzo catacombale, un campo di fiori di sangue dove l’amore è più caldo della morte.

È una delle visioni, delle evocazioni carnali più folgoranti ed espressive di 120 battiti al minuto, potente consacrazione del talento di Campillo (dopo il più disomogeneo ma altrettanto febbrile Eastern Boys) per un’arte visiva che deve al naturalismo tanto quanto al piacere del racconto necessario, al documentario perlustrante quanto al cinema di denuncia, al lucido e integerrimo rigore morale quanto ai lirismi videoartistici.

Un film colto nel suo farsi, una storia mutante che raccontando con precisione la pandemia dell’AIDS e la lotta di un gruppo di giovanissimi contro il silenzio politico e per la sensibilizzazione affonda nella frenesia e nell’eccitamento vitale della manifestazione, nell’action delle discussioni frontali del movimento Act Up francese; va alla ricerca vorace della collettività ma s’innamora gradualmente e perdutamente di un personaggio, trovando nella voce e nel corpo del singolo (Sean, lo struggente, intenso Nahuel Pérez Biscayart) l’universalità del martirio di un’innocente, quasi cristologico nel finale – ma mai astratto, sempre e comunque fisico, desiderante -, all’interno della processione atea che lo circonda prima e dopo i suoi ultimi battiti di vita, e a quel punto visualizzandone i sogni/incubi, tra crudezza e tenerezza, il fiume rosso dell’indignazione e dell’incubo assassino, della colpa che si espande senza inizio né fine, la polvere di luci che si mischia ai corpuscoli infetti.

Lampi di visionarietà, di pausa sospesa che boccheggia dopo l’osceno, in un film che cerca rifugio negli scampoli di fuga che il cinema, scoprendosi impotente, può fornire, ma che soprattutto si accende sul privato restituendo ai suoi ragazzi la pienezza di un’esistenza di amore e sesso, la corporeità temuta, violata e negata – e, dunque, un’identità; l’appartenenza alla vita, a questa vita: l’orgasmo in ospedale contro l’essere solo numeri in diminuzione, carta straccia -, e chiamando in causa un’urgenza vibrante, e la presa di coscienza, per scacciare pigri concetti di nemici senza volto, e ritornare sulle piazze, oggi, a occhi aperti, scrollati, elettrici.

 

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