venezia 76

MARRIAGE STORY di Noah Baumbach – nel diorama il tempo non ci può far male

Regia: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach
Cast: Scarlett Johansson, Adam Driver, Laura Dern, Alan Alda, Ray Liotta
Anno: 2019
Produzione: USA, Regno Unito

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Ancora una volta Baumbach prova ad ucciderci con la sua semplicità, quella dal sapore semplicissimo di un “l’altro ieri”, “l’anno scorso”, frammentata, coi piedi per terra, la sua terra.

Un regista la cui scelta più apprezzabile sembra nuovamente quella di non voler uscire dai ranghi, dal proprio mondo noto, dal diorama nel quale sembrano aver luogo praticamente tutti i suoi film, trasmettendo sempre e comunque il calore di una dimensione confinata, a cavallo tra il dovere narrativo e l’asciuttezza di un ricordo (simulato o meno), senza velleità e senza radicalismi.

I suoi first world problems non sono sbandierati, non sono un muro velleitario davanti al quale c’è da sottoscrivere un patto comune di elitarismo condiviso, non sono Wes Anderson. Sono uno dei più auspicabili “parlo delle cose che conosco” possibili, dove l’artificio è ben celato nel desiderio istintivo di voler dare una connessione umana.

È qui ancora una volta che, rimanendo nella dimensione del mumblecore, non sembra di assistere a uno spettacolo di marionette ma a un gioco di ruoli, non a una meccanica emozionale ma a uno sciame di sensazioni, non a uno sfoggio ma a uno sfuggire, non a un cinema d’autore da primadonna tantomeno di gelido inoculare visioni e concetti.

Del concetto e del concettuale, anzi, Baumbach sembra quasi vergognarsi. I suoi non sono personaggi da punchline, non sono qui a spiegarti come va il mondo e, soprattutto, non sembrano messi qui a dirti che il loro mondo sia meglio del tuo.

Questo perché anche in Marriage Story a contare e prevalere non è il bel modo in cui film/autore/personaggi affrontano il “problema”. Il “problema” sembra anzi non essere tale, ci viene dato come semplicemente “cosa che accade” senza voler nemmeno suscitare in scene o battute un “Vero, è così che va” nello spettatore.

Non è cinema hipster da sudditanza psicologica, ma un cinema pudico, sincero nel giocare col proprio limite, paritario, semplice, il più possibile tondo.

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