DAYDREAM NATION di Michael Goldbach

REGIA: Michael Goldbach
SCENEGGIATURA: Michael Goldbach
CAST: Kat Dennings, Reece Thompson, Andie MacDowell, Josh Lucas, Rachel Blanchard
NAZIONALITÀ: Canada
ANNO: 2010

«Tell me Joni, am i right by you? Tell me how you’re gonna loses hard fuck?
Hey Joni, when will all these dreams can true? You better find away to climb down off that truck».

Hey Joni, Sonic Youth

 Ci sono film che scegli come mai faresti per un libro. Dalla copertina. O, in questo caso, dal titolo. Daydream Nation è uno di questi, perché diciamocelo: se non evocasse uno dei monumenti dell’alternative rock statunitense, di vederlo passerebbe per la testa a pochi. E sarebbe un gran peccato, in quanto l’esordio dietro la macchina da presa di Michael Goldbach è pellicola che merita affettuose attenzioni. 
Partiamo dal titolo, gocciolante ammirazione per i Sonic Youth nonostante il testo filmico non riverberi poi granché di tale infatuazione, eccezion fatta per Reece Thompson: al quale la sceneggiatura affibbia il meno criptico che mai nome di Thurston; mentre della leggenda sonica newyorkese, Daydream Nation film conserva più che altro una sorta di disordinata alienazione strutturale, tradotta in immagini dal fanatismo musicale: quasi quest’ultimo fosse ispirazione creativa, che dei Sonic Youth rumore-uguale-melodia non lascia tracce evidenti o invadenti. Fatto salvo l’estratto di Hey Joni.

Daydream Nation mira a rinverdire, “distorcendola”, la tradizione brat pack. Scatta dall’eco di Schegge di follia per accodarsi in scia a Elizabethtown e La mia vita a Garden State; senza per questo dimenticarsi di strizzare l’occhio a Donnie Darko e Juno, caricando gran parte delle sue potenzialità sulle forme di Kat Dennings, turgida figura che farebbe invidia alla Megan Fox di Jennifer’s Body qui potenziata da una sapiente scrittura operata sul personaggio: cinica lolita, ingenua sognatrice o saccente adolescente a seconda del mutevole umore di giornata. Goldbach prende in prestito da John Hughes i topoi ricorrenti del filone da lui codificato (ambiente scolastico e dissociazione liceale, amori desiderati e impossibili, ingannevoli e sfaccettate realtà familiari), al fine di sporcarli, così da immergerli in una non meglio specificata realtà di provincia: «un posto incredibilmente amichevole, pieno di persone timorate di Dio, ragazzi con la pistola e molti più incesti di un film di Atom Egoyan» - dove la conseguenza di un incidente industriale brucia ormai da giorni e un inafferrabile serial killer di teenager continua, indisturbato, a mietere vittime – appena prima di celebrarli nel più classico dei crescendo “hughesiani”, movimento che concepisce il distruttivo party casalingo come catarsi tesa a suggerire l’ordinata e risolutiva chiosa finale.

Organizzato da uno svolgimento in capitoli che sottopelle potrebbe persino avvicinarlo a Bellflower (non fosse poi per l’identica volontà di ritrarre una giovane America che potrebbe essere ovunque, dedita al consumo di qualsiasi droga a buon mercato possibile: «E ora frequentavo il liceo più drogato di tutto il paese. Giuro su Dio. I ragazzi fumavano erba, sniffavano colla, si facevano di anfetamine e ecstasy nei bagni. Di tutto pur di sfuggire alla noia»), Daydream Nation scorre via morbido e piacevole, intaccato di striscio dalle appena abbozzate dinamiche d’inizio relazione tra Caroline e Thurston, ciò nonostante a segno nel tentativo, riuscito, di voler richiamare con discreta personalità i propri modelli d’ispirazione: Hughes, Crowe e Braff su tutti. Gli ultimi due omaggiati respingendo la tentazione dell’accademico copia e incolla nostalgico (una giovane donna e non più un uomo, a spostarsi dalla città alla provincia), che non prevede originale rilettura.

C’è, piuttosto, da rammaricarsi per un non proprio eccelso dosaggio dell’enfasi musicale: perché, se La mia vita a Garden State si rivelò come la versione “indie” di Elizabethtown (anche) contrapponendo New slang degli Shins a Free bird dei Lynyrd Skynyrd come “tema portante”, Goldbach pecca invece di approssimazione nel collocare Your ex lover is dead: il pezzo migliore a sua disposizione, pur avendo tra le mani uno dei brani pop più orecchiabili e malinconici degli ultimi anni. Per giunta scritto dai connazionali Stars.

Pazienza, d’altronde nemmeno i Sonic Youth hanno mai puntato alla perfezione a tutti i costi. Anzi…

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