BELLFLOWER di Evan Glodell

REGIA: Evan Glodell
SCENEGGIATURA: Evan Glodell

CAST: Evan Glodell, Jessie Wiseman, Tyler Dawson, Rebekah Brandes
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2011 

“QUESTA È LA STORIA DI UN TRIANGOLO D’AMORE

Christine, Stephen King 

Due ragazzi qualunque s’innamorano mangiando grilli in un postaccio qualunque. Bellflower inizia (quasi) così, congiungendo le vite di Woodrow e Milly in una delle sequenze cinematograficamente più punk-rock che la memoria breve possa ricordare, ambientata su di un palco che persino Scott H. Biram o un Elliot Smith all’ultimo stadio faticherebbero ad accettare per esibirsi. Mirabilia e prodigio cinefilo, l’esordio dietro la macchina da presa di Evan Glodell rapisce e imprigiona i sensi: raramente, a chi mastica cinema, è concesso il privilegio d’imbattersi in tali sbalordimenti, eden artistici dove la perfezione non sembra affatto essere un traguardo, bensì “semplice” punto di partenza. Bellflower è portento dalla stregoneria unica, negli oliati meccanismi del quale tutto confluisce, trovando, quasi per incanto, ruolo e posto a sedere; che si tratti di tecnica, originalità nello stile, conseguente forza delle immagini, contorni caratteriali e profondità psicologiche dei personaggi, impatto di questi ultimi, alternanza di toni e registri emotivi (cazzeggio, dramma, risata, tragedia, eros, thanatos), conoscenza dei generi o della materia trattata, aggiungete pure se vi va, tentate, chiedete: Bellflower possiede qualunque cosa cerchiate in un film. L’opera prima del novello John Carpenter Evan Glodell (colui che produce, scrive, dirige, interpreta e monta), è una lezione in movimento su come impiegare sapientemente la macchina da presa, fuoriclasse nel muoversi isterica, obliqua, trasversale, mai insomma, dove ti aspetteresti che fosse; riuscita operazione algebrica di regia elevata al cubo da una fotografia che lascia a corto di aggettivi e superlativi, efficiente com’è nel tingere tutto d’ambra acceso, sparando i gialli e rafforzando le tonalità calde. Bellflower ama Mad Max, ma fermarsi a George Miller sarebbe, oltre che riduttivo, decisamente inutile. Mother Medusa, il bolide su quattro ruote che dall’infanzia accende le fantasie dei fraterni amici Woodrow e Aidan, altro non è che una metafora dell’adolescenza, una Christine attrezzata per il dopo apocalisse e lanciata in frontale contro l’età adulta, meta quest’ultima, da raggiungere necessariamente attraverso il contatto reale con la vita, quindi tramite le delusioni, le pene d’amore e il cuore in frantumi. C’è chi scomoda (già) Van Sant, ma Bellflower, probabilmente, può essere interpretato come la risposta allucinata, pulp e stoner a 500 giorni insieme. Glodell gioca abilmente con il mito di Interceptor, non risparmiando però sotterranei rimandi ai “muscle car movies”, tanto che, osservando attentamente l’idilliaco viaggio in Texas di Woodrow e Milly, non risulterà forzato sentir riaffiorare il ricordo di alcuni capisaldi del filone in questione, giovanili viaggi senza destinazione come Strada a doppia corsia di Monte Hellman. Citazioni spontanee, sentite e mai gratuite, che passano in secondo piano solo di fronte alla scansione narrativa degli eventi, un precipitare che da alienato al resto del mondo (in quale delle due Bellflower ci troviamo? Scrutiamo una cittadina o solo una via? Di cosa sopravvivono i suoi abitanti, oltre che di sogni e illusioni?) si fa ben presto violento e paranoico, appena prima di tornare melodrammatico e consapevole attraverso l’ingannevole twist finale. Bellflower è questo ed anche di più, un sublime film sulla fantascienza del reale, che prende per mano chi guarda coccolandolo tramite il suo aprirsi e chiudersi di capitolo in capitolo. O forse no, ci siamo sbagliati, è stato solo un sogno. Meglio ancora un  incubo. Un incubo meraviglioso e indimenticabile.

ps. obbligo di citazione per la colonna sonora curata da Jonthan Keevil, di cui Brackeflower è ipnotizzante coda synt(h)etica. Che gli illustri paragoni si sprechino pure!

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