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Under Dog: JOE di David Gordon Green

joe

REGIA: David Gordon Green
SCENEGGIATURA: Gary Hawkins
CAST: Nicolas Cage, Tye Sheridan, Gary Poulter
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

“Hey Joe, where you goin’ with that gun in your hand?
Hey Joe, i said where youn goin’ with that gun in your hand?”
Hey Joe, Jimi Hendrix 

“Old man look at my life i’m a lot like you were
Old man look at my life i’m a lot like you were.”
Old Man, Neil Young 

“A long way from happiness
In a three-hour-away town
Whiskey bottle over Jesus
Not forever, just for now
Not forever, just for now”
Whiskey Bottle, Uncle Tupelo 

Per un regista come Cameron Crowe, che negli angoli dell’America remota ricerca sempre e comunque la bellezza, ne esistono altri, come Jeff Nichols, attratti dalla poesia antieroica e sconfitta dei personaggi che quei luoghi li abitano.
Altri ancora invece, si prendono la briga di dissotterrarne il lerciume e la crudeltà. 
Tra questi c’è l’ultimo David Gordon Green.

Dimostrazione monumentale di un cinema classico ormai in via d’estinzione – sopraffatto dal proliferare di operazioni (presunte) indie studiate a tavolino – Joe rapisce d’acchitto, sfrutta come meglio non si potrebbe il suo ingannevole attacco in medias res e progressivamente si insinua tra i diversi piani di percezione, ostentando il suo logoro vestito da post western affamato di miseria e violenza, restituendo(ci) un regista ancora una volta nuovo, dissimile ma non troppo da quanto mostrato una manciata di film fa sull’asse natura/disperazione (George Washington, Snow Angels); tanto formalmente distante dallo stile che ne caratterizzò gli esordi quanto autorialmente attinente alla polpa narrativa spesso maneggiata.

Il successore di Prince Avalanche non è un film perfetto, tutt’altro. Discontinuo e poco compatto, a tratti ingolfato da una scrittura che al fioretto preferisce sovente la sciabola, sfiora il rischio della disomogeneità ma trova ugualmente collocazione e lode nel curriculum del cineasta americano, in quanto performance capace di offrire molto di più rispetto all’ennesima dimostrazione di come in Green convivano, da sempre, due personalità e altrettanti registri, bipolari e antitetici (drammatica la prima, scanzonata la seconda); al netto di ogni difetto la prova che più si avvicina al concetto di definitivo fin qui dimostrato dalla produzione di David Gordon Green: autore in continua evoluzione, che dalla commedia derivata dal finlandese Á Annan Veg travasa il proprio flusso creativo nell’inattesa e balorda tragedia della sua ultima fatica, custode di una potenza emotiva tellurica e devastante; che l’approssima come nessun’altra all’immaginario riconducibile a Terrence Malick. Da sempre punto di riferimento, nonché parziale talent scout, del regista d’adozione texana.

Opera dalle radici western, caratterizzata come Ain’t Them Bodies Saints da luoghi e spazi riconoscibili: Joe si circonda delle medesime location utilizzate da Prince Avalanche, ora asciugate e disturbate dall’alienazione che su di esse incombe; diventando tramite e al tempo stesso divenire tra le due prestazioni filmiche un po’ come i rallenty, le zoomate e i movimenti di macchina settanteggianti finivano per offrire un collegamento, seppur decontestualizzato, tra i sentimentalmente inconciliabili Undertow e Your Highness (da noi tradotto come Sua Maestà).
Nell’equazione mutaforme di Green, stile sta ad ambientazione. Tutto il resto è un manrovescio inaspettato, un qualcosa di così emotivamente opprimente da entrarti nelle viscere fino a disordinartele per sempre.

Non è facile rapportarsi ad un film come Joe, vuoi per il suo animo profondamente americano radicato nella condannata ruralità di un angolo del Texas dimenticato da Dio; vuoi per una violenza prima mentale e successivamente fisica che circonda e movimenta gran parte dei suoi passaggi chiave, a loro volta connessi al triangolo padre-figlio-mentore: angoli scaleni alternati dal toccarsi di esistenze gettate nel fondo di una bottiglia, disperato desiderio di un futuro migliore e continui quanto maldestri tentativi di redenzione; dove l’unico bagliore di speranza è custodito negli occhi determinati di Tye Sheridan, quindicenne che dalla vita ha avuto in dono un padre manesco e alcolizzato (un Guy Poulter talmente malvagio e privo di scrupoli da far impallidire persino il Peter Mullan di Tyrannosaur) e una famiglia in frantumi; il figurato fratello maggiore di quell’Ellis interpretato dallo stesso Sheridan in Mud, che dal fondo di questo fango popolato da villain riesce ad emergere grazie all’incontro, salvifico, con il surrogato di figura paterna atteso e inseguito fin dalla nascita.

Green non si limita a portare sul grande schermo un romanzo di Larry Brown, bensì evidenzia con la sensibilità di un Nick Cave il punto d’incontro tra Stainbeck, Faulkner e McCarthy, cantando l’America dei vagabondi, dei disperati e della frontiera interrotta come farebbero il Malick di Badlands o il Jeff Nichols di Shotgun Stories qualora venissero derubati di ogni visionaria poesia.

Da queste parti, per un goffo accenno di breakdance e una scampagnata tra i rottami a secco di motoscafi abbandonati, c’è una bottiglia di vino per un sorso della quale vale la pena uccidere, imboscate a suon di revolverate esplose a tradimento e figlie da vendere per trenta dollari stropicciati. Qui ci sia guadagna la paga settimanale avvelenando la corteccia degli alberi e si torna a casa stipati in un cadente pickup per rinchiudersi davanti alla tv o, in alternativa, in un bordello di campagna. Quello immortalato da Joe è un microcosmo disperato e feroce, dove la sopravvivenza è un lusso concesso solo al più losco e violento degli individui: il randagio con più cicatrici sul muso insanguinato, quello capace di rimettersi su quattro zampe dopo aver ferito a morte il proprio simile.

Chi ha detto che l’America è un posto fantastico?
Chiunque sia stato si sbagliava di grosso. 

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