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THE ZERO THEOREM di Terry Gilliam

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REGIA: Terry Gilliam
SCENEGGIATURA: Pat Rushin
CAST: Christoph Waltz, Melanie Thierry, Matt Damon, Tilda Swinton
UK, Romania 2013

1985, “da qualche parte nel ventesimo secolo” Terry Gilliam, il papà di Brazil, anticipava gli effetti del (falso) progresso, l’alienazione dell’individuo e la fuga nella fantasia. Dieci anni più tardi, muovendosi dentro manicomi e virus, concepiva i propri studi avveniristici ideando l’Esercito delle 12 scimmie che avrebbe cancellato l’umanità… coerenza, riflessione e soluzione. Da un’indole surreale, eversiva e dissacrante come quella di Gilliam non ci si poteva aspettare che il filo logico delle sue inquietudini si spezzasse col passare del tempo, infatti con esso si è intestardito, si è allungato, si è espanso fino al buio cosmico; fino al paradosso.

The Zero Theorem altro non è, non aggiunge materia altra alla fantascienza del regista, piuttosto guarda alle rivelazioni mancate, alle smentite mai avute. Echeggia all’interno di quel nucleo sempre uguale e sempiterno: quel buco nero di questioni irrisolte e inspiegabili dentro le quali Gilliam ha canalizzato la sua arte (leggi anima). A cambiare oggi non è dunque l’interrogativo di base “qual è il significato dell’esistenza”, ma la risposta. L’ex Monty Python che troncava gag di comica morte violenta oggi la esplora, indagando sulla vita per mezzo di Qohen Leth: spirito sopravvissuto di orwelliana memoria. Un solitario, genio e incompreso analista del Teorema Zero Christoph Waltz, immenso con gli occhi spalancati di chi brama un senso e il corpo glabro e protetto dell’ultimo afflato di speranza. È lui l’ultimo uomo di fede, di scopo, di disobbedienza, di una moltitudine che non esiste più e che fa tragicamente rivivere nel personale plurale maiestatis dove, a raddoppiare, è soprattutto la solitudine.

Gilliam prolunga le sue visioni attraverso una rete/tuta di connessioni neurali, costruisce un altro dei suoi mondi a venire, imballato con coloratissime funzionalità di upload e governato da un’innominabile Direzione (Matt Damon). Il futuro è un videogame degli anni Ottanta, composto di feste in maschera, di indifferenze, di amori virtuali, di ipocondrie e di eccentrici strizzacervelli informatici (la sempre camaleontica Tilda Swinton). Tutto è una gigantesca allegoria di inganni e di incomunicabilità. Ogni passo è spiato dall’onnipresente burocrazia demaniale e demoniaca che, sin dagli esordi, macchinava il controllo assoluto. Nel frattempo le telefonate sono diventate attese, epifanie che dovrebbero svelare il motivo dell’esistenza e, sopra ogni cosa, impera un disegno che non conserva alcun aulico scopo, semmai lo instilla con la pubblicità e lo produce in quantità di massa.

Il Teorema Zero è l’equazione perfetta del caos, è l’affanno di un solo uomo che lotta contro identità omologate, è il business dell’ordine e del disordine. Chi lo detiene assume il potere, chi lo studia si logora nel dramma esoterico. Il punto è che allo stato attuale delle cose niente scuote più niente. Gilliam ha calcato le pendici del grottesco e gli apici dell’onirico, ha raggiunto e superato l’entropia del ventunesimo secolo, ha rotto i cavi del Sistema che oggi si ricollegano in automatico e ha deciso di creare il proprio anno Zero. L’anno in cui ogni cosa s’annulla, si disillude, si lascia cadere in un wormhole esistenziale e si ricarica in quella costante e indistruttibile evasione che è il sogno. Se il passato è stato una chimera la fantascienza che verrà sarà pura allucinazione.

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