MERDE di Leos Carax

REGIA: Leos Carax (in Tokyo!, con Michel Gondry, Bong Joon-ho)
SCENEGGIATURA: Leos Carax
CAST: Denis Lavant, Jean-François Balmer, Julie Dreyfus, Kenji Kodama
NAZIONALITÀ: Francia, Giappone
ANNO: 2008

Tokyo! è un trittico di pellegrinaggio del 2008, scritto e (rispettivamente) diretto da Michel Gondry, Leos Carax e Bong Joon-ho: due terzi di Francia e uno di Corea del Sud, dove possiamo vedere  tutti i limiti del primo, la capacità di placarsi del terzo e, lontano nove anni dopo Pola X e praticamente quattro prima di Holy Motors, tutta la propulsione cromatico-sanguinolenta del secondo immutata nonostante le date: prima di tutto si presenta la prova che Leos Carax non era un macellaio della pellicola buono per i Novanta o per gli Ottanta, ma un contrabbandiere di immagini capace di covare un’esplosione per anni senza che questa risulti datata/vecchia/putrescente. Ben immersi  nei rispettivi tessuti produttivi, gli altri due paiono fallire, buoni solo per fare da cornice e bulletproof a Merde, che, se può avere a che fare con qualcuno o qualcosa, si tratta di Gaspar Noé e di Enter  the void, in una sorta di amplesso geografico-autorial-estetico: divini e reietti francofoni salvati nell’esposizione visiva (o nella sua accettabilità produttiva) di Tokyo, nell’accezione retro-futuristica del fantasmagorico delirio possibile – come catastrofe su New York – nel luogo più distante (mentalmente, fisicamente), per due vicende di frontiera primariamente (all’apparenza) opposte: dell’anima Noé, dell’immigrato (del corpo) Carax. Come Parigi per i diciotto di Paris, je t’aime, per i tre di Tokyo! e Noé abbiamo una capitale a fare da salvacondotto estetico, con tutti i suoi cliché, le convenzioni, gli appurati, gli apparati, le plausibilità.

Così un clochard può diventare un Godzilla umano; così l’ultima bestia della catena sociale può diventare un elfo pregno della forza visiva elementare del rosso e del verde, così come elementare è il suo nome: Merde. Il troppo tempo prima e il troppo poco disponibile (Merde dura trentacinque minuti) danno a Carax la forza di un tonfo unico e compatto, non assordante ma accecante, senza sfumature, un colpo di fucile caricato a vernice, un muro contro cui sbattere, che non necessita di chiedere di dimenticare (qualcuno o qualcosa) perché generato da sé, da un trombone (quello originale di Godzilla) ed un tombino che altro non è che una cavità oculare vuota (vista attraverso un iris9 nel momento in cui Merde appare con il suo occhio di vetro bianco.
Merde non può essere né spolverato come corto-bignamino né salire a lungometraggio compresso,  Merde è solo la possibilità di Merde di emergere come icona: dalle fogne (di Tokyo che potrebbe essere Parigi, Roma o Città del Messico; dalla testa di Carax divincolata dalla necessità narrativa),  terrorista, fuggitivo nel film come da qualunque personaggio che sia anch’esso in fuga (cioè tutti).
Merde, fatto di grammelot e bombe a mano, come buffa belva chaplianamente coreografica. Merde, necessariamente nudo (quindi vero) e distaccato (spietatamente ancora più vero), freak e messia, pensiero sporco libero sia verso il basso che verso l’alto (e il suo episodio in Holy Motors rimane l’unico a non prendere un’unica direzione: anzi, l’unico a non averne alcuna). Merde caso mediatico e capace di svanire, autentico Visitor Q, e che può dire di detestare i giapponesi perché sono longevi e con gli occhi a forma di figa senza che nessuna spiegazione sia realmente necessaria da chiedersi.

Merde: naiveté, costume (da) animale, libero di fumare e di respirare, nell’eleganza dell’orribile, nell’innocenza che non ha bisogno di essere tale. Ancora: Merde icona, dell’all-alone e dell’all-in-one, scalmana (dove occidentale sta per mentale) davanti a sguardi attoniti e quasi impassibili (dove giapponese sta per gli-altri), mentre il Cinema di Carax si fa sfuggente carnevale compresso.
Venuto da lontano, ogni volta. Rozzezza, spinta, brutalità, bellezza apolide: di qualsiasi pensiero.

«Piccolo budget, girare in digitale, girare veloce,e non guardare mai i giornalieri». Merde come Holy  Motors, e tutto il contrario del Carax precedente, e l’abc della guerilla. E non una goccia di cuore sudato che si sia seccata. In Merde il vezzo pop (la bandiera nipponica nella tana di Merde praticamente lo urla) fa da catapulta a Denis Lavant, che non lascia un solo fotogramma senza sporcarlo di gesto nervoso, tra i comprimari, le comparse ed i passanti, sozzo come se non si fosse mai lavato, frenetico come se avesse dieci vite passate e la morte con il cronometro davanti, mentre Carax appare senza calcolo, sballottando piani sequenza, colori pieni e oscurità, schermo splittato, dissolvenze: recitazione senza parola, regia senza filo/catena/camicia(di)forza.
Si va sempre parlando di testamenti: Merde è le grida di un parto che viene ricordato, il quel-che-c’è-prima di tutto-ciò-che-viene-dopo. Ancora: icona.

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