sguardi (in vita)

ALAIN RESNAIS: QUANDO LA SUA GUERRA NON ERA ANCORA FINITA – 1° PARTE

Originariamente pubblicato il 3 aprile 2006

alain resnais (3)

UN ARCHITETTO/PITTORE CHE SFUGGE AL TEMPO PROVANDO AD INTRAPPOLARLO

Ci sono autori che fanno parte, stabilmente, del firmamento storico cinematografico.
Alain Resnais, classe 1922, è uno di quegli autori il cui nome può essere addirittura parafrasato con il termine storia del Cinema. Egli è infatti divenuto un caposaldo portante della settima arte tramite serie di innovazioni a livellostrutturale-filologico ad oggi ineguagliate, almeno per quanto riguarda il proprio creato più laborioso, la magnifica trilogia “del ricordo”. Fino ad allora non si era mai osservata una maestria nell’elaborazione del tessuto filmico gestita da una rete di piani temporali tanto complicata quanto nitida nella sua messa in scena: espedienti, in definitiva, che potevano essere rappresentati con successo solo da un patron del grande schermo, un pioniere della Francia esploratrice di nuovi orizzonti cinematografici, perché solo il cinema poteva dar vita alla coraggiosa creatura di Resnais. Un architetto, che traccia con strumenti precisi (i cui angoli potremmo definire smussati, vedendo la meravigliosa fotografia scelta per ammorbidire gli spigoli che inevitabilmente si vengono a creare trattando argomenti ancora oggi sconosciuti all’uomo) le linee di riferimento per lo spostamento cartesiano di tutti i suoi elementi, delle sue pedine, dei punti noti sulla parabola (o, se volete, su tre rette temporali costantemente in sincronia) del tempo inteso come spazio vitale, come condizione imprescindibile alla quale associare la completezza delle azioni umane. Ed è il rapporto secolare tra spazio e tempo a costituire la geometria del regista, a fornirgli gli spunti sui quali abbozzare vedute geniali del percorso sintattico che teoricamente ogni individuo è portato a compiere, assecondato da altri oggetti astratti formanti il linguaggio filmico stesso, si tratti del ricordo inteso come flashback (o viceversa) o della fotografia parallela su due (passato-presente) o più (implementazione del tempo futuro) livelli narrativi o ancora della sinergia che si viene a creare tra i protagonisti delle sue opere in situazioni che non avrebbero apparentemente senso se il filo sequenziale non continuasse imperterrito a spezzarsi frammentando sempre nuove soluzioni logiche (non a caso i due amanti di Hiroshima non avrebbero mai potuto ritenersi tali se non lo fossero stati in un quantomeno ipotetico passato che prepotentemente riaffiora nei gesti, negli sguardi e nel sillogismo che si accosta più facilmente al tempo presente, la quotidianità come periodo stretto di azioni compiute e ancora salde nella memoria). Rigoroso se pur libero nell’espressione della sua arte, Resnais è anche pittore dei suoi film-dipinti, con la consueta leggerezza di chi gira prima di tutto per sé, per tentare di dare risposte alle domande esistenziali tramite l’amore per la passione filmica. Pittore perché le linee, gli spazi e i contesti sembrano, man mano si assimilano le intenzioni del francese, appartenere sempre di più a un quadro irreale (discorso che vale anche nelle sue opere più apparentemente razionali), o meglio alla realtà smagnetizzata e dilatata all’infinito sulle sue tele criptiche per lessico e forma ma facilmente assimilabili per contenuti e obiettivi.

Cinema di conseguenza contradditorio e (mai abbastanza) eccessivo nella forma, complicato ulteriormente dall’insormontabile desiderio di scopertaricognitiva e sensoriale per far luce sulle
prerogative più ambiziose che per natura l’uomo si pone.
La pennellatura di questo autore è unica nel suo genere e il suo tratto, liscio e impavido come il più maledetto dei ritrattisti, si amalgama frequentemente con le emergenti sensazioni che lo 
portano a sentirsi (ri)stretto nell’essenza sociale circospettiva.
L’esigenza di scorgere un bagliore più vasto (arte come ponte – astratto o non -) è quindi sostenuta dal distaccamento dei criteri usuali per gettarsi del tutto su nuovi orizzonti alternativi e possibilistici.
Esplorare un tale malloppo culturale/psico-intellettivo è impresa piacevolmente stremante e
se il maestro francese ha creato un documento irrealizzabile attraverso qualsiasi altro campo extracinematografico, è anche bene ricordare e donare uguale importanza al tragitto percorso per arrivare ai primi lungometraggi, il passato più oscuro e affascinante di Resnais, costellato da tappe basate sulla propria formazione prettamente documentaristica.

alain resnais (1)

PICCOLI ESEMPI DI GRANDE ARTE

E’ necessario quindi andare a scavare nella memoria del cineasta francese, scendere per un attimo in cantina o salire un istante in soffitta alla ricerca di antichi cimeli, oggetti che possiamo associare al ricordo (una costante attenzione va posta a metafore, rimandi o dichiarazioni esplicite riferite alla destrutturazione del piano temporale, alla memoria, all’oblio, pretesti principali di cui si nutre il cinema di Resnais) per rispolverare il loro antico ma mai defunto splendore. La “pre-filmografia” del francese, ricca di spunti per gli amanti dello stesso, si presenta come uno scrigno ricco di preziosi ammassati, su cui la luce dell’arte, i gridi della rabbia rivoluzionaria, la consapevolezza di esistere in un mondo ancora pienamente sconosciuto, si schiantano frantumando tanti strani ma pregievoli segmenti. Negli anni ’40 il regista inizia a produrre una grande quantità di cortometraggi, per lo più documentari. Il suo spirito visionario gli permetterà di intravedere il talento di Van Gogh e Gauguin, allora non ancora affermati quali pittori storici che sono tutt’ora. Nascono infatti due corti realizzati in collaborazione con Gaston Diehl di circa 20 minuti a cavallo tra gli anni 40 e 50 che prendono 
nome dai due autori impressionisti. Il risultato è la ripercussione delle opere da parte di un occhio meccanico, che si ferma su vedute paesaggistiche o su particolari da esplorare con la coscienza che non basta osservare, scrutare o basarsi sui soggetti dipinti, bensì è necessario approfondire con la propria mente lo spunto offertoci dal regista. Siamo trapassati da un ciclico vortice di emozioni visive, proiettili simili alle pennellate schiave dei maestri documentati, incanalate però costantemente dall’accortezza di voler raggiungere un obiettivo unico e indiscutibile, quello di analizzare (esponendola) un’arte libera dai canoni che l’avevano incatenata per secoli. E noi, immobili, ci lasciamo trapassare, consci di venire scaraventati nelle stesse strade, dinnanzi ai medesimi colori, in relazione quindi con i protagonisti che popolano i soggetti dei tre pittori (Gauguin e Van Gogh sono infatti i due artisti immortalati dalla mano di un terzo, Resnais), sfumando le nostre vedute nel momento in cui la macchina sfuma o collide i propri orizzonti.
A cavallo di questi due cortometraggi ne viene prodotto un terzo, più breve ma allo stesso tempo carico di un’intensità irripetibile, che ritrae letteralmente (l’occhio si posa su praticamente tutti i punti del maestoso dipinto) il quadro Guernica, di Pablo PicassoResnais per Picasso (in quanto Resnais per Guernica) e, indirettamente, Picasso per Resnais. L’omonimo filmato annulla lo spazio e il colore (un bianco e nero maggiormente estremizzato) secondo le regole prefissate dal cubista spagnolo, creando, grazie all’apporto della mobilità cinematografica, un lucido rimando alle vedute di Picasso sottolineandone la drammaticità. Le inquadrature sfuggenti, rabbiose, sono la punta che completa l’arma scagliata molti anni prima dal pittore: apre con la città distrutta dalla stupidità umana per sfociare in un inno di libertà che punta il suo dito sulle ingiustizie della guerra e del potere. Nel mezzo, la moltitudine di lampi ammassati in una teorica pila, gestita con astuzia dalla velocità camaleontica della voce fuori campo (indispensabile mezzo di denuncia che Resnais imparerà a sfruttare con esperienza inimitabile nel proseguimento della sua carriera), a tratti graffiante per rabbia e velocità ( “prova a dire alla madre perché suo figlio è morto!”, udiamo scalfiti dalla brutalità delle parole, scagliate comepietrerivoluzionarie) e a tratti in scrutabile ( “attori tristi ma così dolci”, riferito alla statica e inesorabile situazione dei personaggi che loro malgrado sono disseminati sul dipinto, è una frase quasi sospirata, sotto la quale si cela la vergogna nell’appartenere a una razza truce come quella umana), che recita (amalgamando le differenze sensoriali) un testo letterario studiato e ricercato (espediente stilistico facilmente ritrovabile anche nei suoi lavori più maturi, criticato, in seguito, da alcuni esponenti della Nuovelle Vague francese, movimento cronologicamente parallelo a quello personalissimo – non inquadrabile – di Resnais) per scuotere lo spettatore per mezzo appunto dei pesanti cambi ritmici conseguenti o anticipanti rumori volutamente assordanti, disturbanti. 
Avanzando cronologicamente scorgiamo un altro importante document(ari)o sulle arti figurative, Les statues meurent aussi (1953), simile per forma (focussulla produzione artistica umana abbinato ad ampie vedute sociali e civili) ma discostato dai precedenti lavori ricamati sull’arte pittorica e spostato su quella scultorea, estremamente necessaria all’autore per proseguire l’elaborazione di una personale sintassi rispettata nella totalità del suo prolifico curriculum.
Questa sintassi inizia appunto nel momento in cui Resnais squadra le radicietico-civili delle popolazioni africane nel film, opponendo un catalogo visivo di sculture, busti, rilievi, intarsi, maschere, ornamenti, abbellimenti, tutti provenienti dallo stesso (semplice e basilare come l’uomo delle origini) ceppo culturale. E’ per l’appunto l’uomo delle origini a (s)co(in)nvolgere l’autore francese, il quale, ancora una volta usando la voce fuori campo ad illustrarci le immagini, puntualizza la rilevanza di certi usi/costumi che sono stati alla base dello sviluppo sociale (lo stesso che paradossalmente si impadronisce del cinema di Resnais nel momento in cui si affrontano le tematiche belliche).
Le statue/ornamenti come feticci da custodire, come parte completante del processo esistenziale moderno proiettato verso un passato da annullare tramite la (in)sicurezza del materialismo affidato all’arte. Ma anche sculture/tradizioni come unico elemento connettivo di usanze perdute nel rumore dell’avanzamento tecnico-scientifico, con la purezza del pensiero e la libertà dell’espressione non imprigionabile in schemi elitari.
Questa ricerca dell’errore umano (in verità in Les statues meurent aussi l’obiettivo è esattamente opposto all’errore umano ma serve per scartare ipotesi, per avanzare teorie partendo da diversi presupposti) è facilmente reperibile nell’opera omnia del regista. Senza però spostare l’occhio troppo avanti, questo atteggiamento è decrittabile dal suo successivo corto, Nuit et brouillard (Notte e nebbia),che comincia a inquadrarlo come compositore di un certo livello nel panorama cinematografico francese.
Il film, giustamente glorificato a capolavoro e prima realizzazione a colori (in parte) dell’autore, è una calcata denuncia contro gli imperdonabili crimini commessi dal progetto nazista (è però un attacco aperto direttamente al potere per sormontare popolazioni a noi identiche per diritti, il nazismo ne è il simbolismo lampante) ripercorrendo il cammino delle vittime stesse.
Il punto di rilievo dell’opera risiede nell’accatastare documenti d’epoca in bianco e nero (crudi, vergognosi filmati o gelide, assurde fotografie) su un’insieme di altrettanto fredde vedute a colori (di ancor più grande impatto da come ci suggerisce il testo narrato, che pensa alle rovine letteralmente impregnate di milioni di morti) dei campi di concentramento più “famosi”.
Il film punta il dito prima che sul nazismo sull’uomo in generale, identificando la razza umana come carnefice di delitti talmente atroci quanto studiati e ingegnosi. Notte e nebbia è la condizione del deportato che presuppone il cessare-rinnegare ogni speranza verso la vita, capire fino in fondo quanto può costare essere diversi-migliori. Ma il film è anche qualcosa di molto più sottile: musiche sinfoniche introducono lo spietato testo di Jean Cayrol, che senza un attimo di esitazione commenta le agghiaccianti diapositive (ce n’è forse davvero bisogno? Cayrol lo sa bene e spesso lascia in sospeso alcuni pensieri per fare parlare il “testo” visivo, scritto con il sangue di chi non può più permettersi di sperare, stampato dalle anime di bambini-adulti-anziani divenuti in seguito numeri/sigle) e cerca perennemente risposte tanto ovvie quanto inspiegabili. Non a caso la frequente affermazione “Je ne suis pas responsable” è il canale usato per tarpare un fantomatico alibi allo spettatore, complice a priori dell’orrore, numero inscomponibile dell’insieme/agglomerato numerico/umano. Si evidenziano solo difetti (l’errore umano che per principioResnais tende a inseguire), del resto la guerra non ha altri meriti che crearne, da una parte e dall’altra.
E il carrello della macchina da presa è ora posizionato accanto ai binari sui quali i treni della morte sono transitati per anni; ancora più a fianco sterpaglie, nuovi manti erbosi innocenti nel loro destino ma nati su un suolo infinitamente maledetto. Fino ad arrivare agli edifici, ora privi di qualsiasi forma di vita (probabilmente lo sono sempre stati), carichi solo di odio, da e verso il mondo. L’abile gioco di complicità della macchina con il testo scritto enunciato dalla voce fuori campo è il più tetro scherzo giocato allo spettatore (non per cattiveria quanto per far riflettere quest’ultimo, a volerci dire che esiste sempre una speranza, per quanto remota, di cambiare): in primo piano le rovine, ferrose, lugubri, abilmente incorniciate nella tristezza del cielo immobile e fuori da esse l’insaziabile voce che preclude, ancora una volta, un se pur piccolo sollievo dentro di noi, asserendo che l’inquadratura si sposta (quasi inesorabile) lontana (allargando il campo) ma la memoria non si può cancellare, non basta quindi chiudere gli occhi per dimenticare.
Terminando il discorso su un’autentica perla viene sponteneo introdurne due simili, quelli che sono gli ultimi splendidi cortometraggi, che segnano la fine del periodo documentarista (che ha conservato, per tutta la sua durata, la medesima compagine basata su immagini+voce narrante+sottofondo musicale ipnotico e sibillino), delimitano il passaggio alla seguente parte realizzativa. Il primo di questi due corti (15-20 intensissimi minuti l’uno), successivo (1956) all’esposto sui campi di sterminio, è il maestoso (per suntuosità e grandiosità del soggetto descritto) ritratto della biblioteca nazionale di Parigi, dal titoloToute la mémoire du monde.
Titolo simbolico e compito difficile, il film tenta di analizzare in tutte le sue facce qualcosa che per la propria natura presenta estreme difficoltà anche solo ad essere catalogato e diviso in sezioni. L’edificio (nel filmato viene introdotto come una vera e propria fortezza) è infatti una prigione per tutti i volumi scritti della terra, che arrivano a milioni ogni secondo tali e quali a un fiume perennemente in piena. Il sapere, racchiuso nei meandri delle frasi, rispecchia un aspetto classico nel cinema di Resnais, la letteratura stessa, protagonista passiva (narrata) nei cortometraggi e attiva (parte integrante del film) in tutti i lungometraggi.
Bunker e spazio atipico distanziato anni luce dal mondo, ma anche pianeta avente una propria regolazione e una legislatura interna, questa complessa biblioteca che si estende sopra e sotto terra (fino ad arrivare al cielo, conclude il narratore) è dipinta in modo da farci sentire infinitesimabilmentepiccoli dinnanzi a sé. Lo spettatore è proiettato in spazi enormi gestiti fino all’ultimo angolo da un meticoloso processo atto a immagazzinare la cultura nella completezza dei suoi rami (scientifica, storica, sociologica,ecc) per impedirne la morte preventiva e prematura. Un momentaneo ritorno al bianco e nero (l’inchiostro che si perde nella mente del lettore formando concetti, creando sillogismi o, semplicemente, raccontando una semplice ma piacevole storia) risulta perfetto nell’illustrare un’istituzione moderna, il quale obiettivo non ha però tempo. Stiamo parlando del sapere collettivo e globale, la chiave della porta che nasconde tutte le risposte, che la pellicola tenta perpetuamente di aprire (forzare).
Nel secondo di questa coppia di lavori terminanti un’era elaborativa riappare la magistrale figura di Sacha Vierny, già direttore della fotografia al tempo di notte e nebbia, il cui apporto nella realizzazione artistica è evidente tanto quanto la mano di Resnais. Stiamo parlando di Le chant du styrène, personalmente ritenuto uno dei più grandi capolavori del regista in assoluto.
Lo scandire le varie fasi del raffinamento petrolifico e carbonico è solo un pretesto per un chiaro esercizio stilistico, astratto e basato sul commento quasi in versi di Raymond Queneau.
Il senso totale dell’opera sta in due righe, che permettono non solo di decifrare un tassello importante della filmografia di Resnais, ma di decodificare un’intera sezione logico-mentale del nostro: “On lave et on distille et puis on redistille /Et ce ne sont pu là exercices de style”.
Ancora una volta geniale nello sviare le proprie intenzioni da quelle che sono le finalità captabili solo dall’occhio attento (preteso), in questa piccola filastrocca (la quale non è altro che un exercise de style) nasce e muore la venacontradditoria autoriale attraversante, ciclicamente, un modo atipico di vedere e fare il cinema, necessitato e spronato dall’insoddisfattezza generata dalla (troppo scontata e facile) colonna vertebrale portante della vita.
Astratto, surrealista, a tratti futurista (un futuro che si è fermato all’industrializzazione di tutto e tutti che vede l’individuo come una macchina e la linfa vitale ad esso associato come il prodotto finito da consegnare in tempo al padrone), di estrema avanguardia nel suo complesso, questo astro semi sconosciuto raggiunge inaspettate verità, stimolate dagli impasti di colore (certi mix di forme-luci-colori restano quasi impossibili da credere) che mettono i brividi, e da un’ossatura in ogni caso formale (gli aggettivi e le caratteristiche appena accennate devono far pensare a un lavoro estremo ma non così estremo come altre correnti prettamente surrealiste). Agghiacciante appunto per timbri e tonalità, la pellicola vorrebbe catapultarci nel petrolio stesso, all’interno dello stirene a temperature pazzesche (ritorna il tema dell’inadattabilità dell’uomo, li situazioni che suonano –per ora- come enigmi), unico modo probabilmente di apprezzare a pieno (e purificandoci a nostra volta) questa meraviglia di soli 13 minuti (nei quali vi è anche il tempo per uncameo dello stesso Sacha Vierny, il meritato riposo che segue l’angustiante e arduo lavoro – questa è quantomeno la sensazione a risultati ottenuti e visionati -)
Con questo ultimo lavoro si chiude una rassegna che solca anche un epoca formativa, quella del documentario al servizio della memoria (artistica, denunciatoria, sociale/globale che sia) per subentrare successivamente in un’altra grande esplosione creativa, che assimila tre film di importanza inaudita a una frotta di tante gemme lucenti.
Sacha Vierny resterà collaboratore per molti altri progetti di Resnais continuando a anticipare vedute, spostare visioni e intuire nuove occasioni per forgiare punti fotografici di spessore incolmabile.
Il legame di queste due personalità solcanti i margini più avanzati del genio (una malattia che sembra non accontentare mai i due, da quel che si evince dal frutto della loro collaborazione) è quanto di migliore potesse chiedere la storia del Cinema.

FINE 1° PARTE 

Condividi

Articoli correlati

Tag