venezia 2017

Venezia 2017: Mektoub, My Love di Abdellatif Kechiche (in concorso)

 

mektoub

REGIA: Abdellatif Kechiche
SCENEGGIATURA: Abdellatif Kechiche
CAST: Shain Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard
ANNO: 2017
PRODUZIONE: Francia, Italia

 

Così distanti e così vicini a La Vie d’Adele, Kechiche è uno dei massimi cineasti del contemporaneo, il suo occhio immersivo per forme e hic et nunc lo rende incapace di confezionare una ballata che sia stonata, sgraziata, brutta. Qui ci sono sempre i dialoghi-fiume, l’orchestrazione della realtà all’insegna del realismo integerrimo, il minutaggio che pare un continuum, le ossessioni per i corpi giovani e i loro moti imperscrutabili, approcciati con lirico assenso, consenso, e fenomenologica distanza. Tutto bello, eppure, in questo songwriting verboso che ha come protagonista un giovane alter-ego e le sue infatuazioni, idiosincrasie, impotenze, tremori che spesso si fanno panici, si sente tutto Kechiche, il suo ego, la sua ambizione, la sua furfanteria clinica: la pecora che partorisce come metafora (davvero spicciola) ed evocazione del venire, dell’essere *, i balli in discoteca, esaltazione dell’impero dionisiaco della giovinezza. Certo, per Kechiche l’esternazione è di superficie, non vi è immersione d’interiorità, il carattere osservativo del personaggio è lo stesso, seppur acuto, del regista: ma l’operazione, certo sentita, premurosa, cantata, è fin troppo lapalissiana, auto compiaciuta. Laddove c’è troppo Kechiche, che da regista si comporta come maschio alfa monoculare, esiste un limite intimo che nessuna eccellenza e sapienza tecnico-formale può colmare.

 

* Aggiorniamo: sarebbe oltraggioso, ma interessante, paragonarla al giovane Elio di Call Me By Your Name (Luca Guadagnino), che il miracolo della vita se lo fa nascere dalle mani alle gambe sradicando il nocciolo di una pesca, come dire che egli nell’arena si è gettato, mentre Amin riesce soltanto ad osservarla, la placenta strappata.

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