Rabbia e “Anime” – intervista a ISHII SOGO

Dai cassetti della memoria di positif, l’impolverato incontro con Ishii Sogo. Regista senza l’opera del quale, Tsukamoto e Miike non avrebbero avuto motivo di esistere.


Quanto è importante nel suo cinema la connessione tra musica e immagini?

L’aspetto musicale è fondamentale nei miei film, non saprei nemmeno immaginare uno dei miei lavori se non partissi da una base che inizialmente è sempre quella sonora. La musica arriva prima del montaggio, permette alle sequenze di collegarsi tra loro in maniera ritmica. Credo che se da ragazzo non mi fossi appassionato alla musica non sarei mai potuto diventare un regista, o quanto meno non sarei mai riuscito a fare i film che poi ho realizzato. Il binomio musica e cinema mi ha permesso di ribellarmi al mondo e di raccontare il mio.

Ritiene corretta l’etichetta di “punk director” attraverso la quale viene spesso classificato?

Conosco la cultura punk nell’accezione giapponese del termine. Sono nato e cresciuto ad Hakata, nel sud del Giappone. Lì questa attitudine si è diffusa e ha attecchito molto di più rispetto ad altre zone, io avevo l’età giusta per innamorarmene nel momento in cui arrivò la prima ondata musicale. So come vive un punk semplicemente perché Hakata era ed è tutt’ora una zona franca, dove le forze dell’ordine faticano ad entrare e la passione per le arti (musica, pittura, fotografia, cinema) può essere espressa liberamente. Il mio cinema ha sicuramente un’attitudine punk, ma allo stesso tempo non ha mai disdegnato la critica sociale.

Panico al liceo (1976) e La solitudine di 1/880000 (1977) sono esempi emblematici del suo stato d’animo giovanile.

Per un regista alle prime esperienze credo sia naturale esordire con film il più possibile sinceri e viscerali, i miei primi passi nel cinema avevano lo scopo di raccontare la realtà che io e i miei coetanei vivevamo tutti i giorni. Temi come la concorrenza intellettuale e la depressione giovanile successiva ad un fallimento negli studi rappresentano per la maggior parte dei ragazzi giapponesi dei veri e propri incubi. Fallire a scuola può compromettere la tua intera esistenza. Da studente liceale prima e universitario poi ne ero letteralmente ossessionato, nascere e crescere ad Hakata, inoltre, non ti offre molte chances. Le possibilità di restare ai margini della società, di vivere da punk, appunto, sono molto elevate. Panico al liceo e La solitudine di 1/880000 parlano di questo.


La solitudine di 1/880000 è contemporaneo di Taxi Driver (1976), una coincidenza?

Assolutamente no. Provo enorme ammirazione per il film di Martin Scorsese. Il suo reduce incapace di integrarsi con la società assomiglia molto ad alcuni ragazzi che ho conosciuto, persone condannate ad una vita ai margini. Il protagonista de La solitudine di 1/880000 è un giovane “roninsei”, ovvero uno studente che ha fallito il primo esame d’ammissione all’università. Il film è emotivamente diviso in tre atti: prima c’è il senso di scoramento, poi la pressione psicologica che sale in prossimità dell’avvicinarsi al nuovo test, infine l’esplosione dovuta al troppo stress accumulato e alla paura di sbagliare ancora; questa volta senza avere più la possibilità di recuperare.

E’ corretto definire Carica! La gang di Hakata (1978) come una sorta di sequel di Panico al liceo?

Sono due film per certi versi molto simili, in entrambi ricorre l’immagine della scuola (l’asilo all’interno del quale si barrica il protagonista), anche se in Carica! quest’ultima ha una valenza esclusivamente metaforica. Con Panico al liceo intendevo denunciare ingenuamente le falle di un sistema scolastico che, attraverso la sua rigida gerarchizzazione, rischiava di condurre al collasso le giovani menti o almeno quelle più deboli. Carica! La gang di Hakata è un ritratto veritiero di ciò che sarebbe potuto accadere nella mia città se un teppista si fosse ritrovato tra le mani una pistola. Entrambi hanno una struttura semplice ed essenziale, ma rivedendoli oggi sono convinto che la loro grande forza sia proprio questa: film schietti e asciutti che raccontano di vite arrabbiate perché costrette alla violenza senza possibilità di cambiamento o redenzione.

Crazy Thunder Road (1980) è ancora un dei suoi film più amati e criticati, è vero che inizialmente doveva essere soltanto la sua tesi di laurea al Hihon College of Art?

La tesi di un percorso di studi mai completato con la laurea, ma questo non mi ha impedito di continuare ad usare le attrezzature messe a disposizione dall’università per portare a termine le riprese del film. Pazzo Thunder Road è probabilmente il mio primo film maturo, girato con lo stato d’animo di chi iniziava davvero a credere di poter intraprendere la professione di regista. Ancora non capisco le eccessive critiche ricevute riguardo la violenza al momento della sua distribuzione in sala. Io non sono una persona violenta, detesto la violenza ma al tempo stesso sono convinto che chi la esprime sia costretto a farlo da uno stato di cattività patologica al quale è stato costretto fin dalla nascita. Questo è il pensiero che ha portato alla realizzazione di Crazy Thunder Road, chi lo ha apprezzato allora ne ha compreso la forza politica e il ritratto sociale della guerra tra bande in una città immaginaria.


Shuffle (1981) e Città esplosiva (1982) la trasformano in una vera e propria icona. Il suo cinema, da punk, si trasforma in cyberpunk.

All’epoca di Shuffle non avevo molto confidenza con la burocrazia cinematografica. Adattai l’opera di Katsuhiro Otomo senza pensare ai diritti d’autore, un’attitudine decisamente punk. Dopo Crazy Thunder Road volevo spingermi ancora oltre dal punto di vista della messa in scena, lavorai molto sull’accelerazione dei fotogrammi. Shuffle ebbe un discreto successo e mi venne naturale perfezionarne lo stile in Città esplosiva, un film decisamente più personale ed estremo per quanto riguarda la cura dell’immagine e il montaggio, dove si è rivelata preziosissima l’esperienza accumulata durante i miei primi tre film. Città esplosiva è il fratello maggiore di Panico al liceo, Carica! La ganga di Hakata e Crazy Thunder Road, dove al centro di tutto c’è la corsa, il desiderio di fuga da una realtà che, per quanto possa sforzarti di allontanare, sarai destinato ad incontrare di nuovo. Il movimento continuo mi affascina, credo derivi della mia passione per i film di Buster Keaton.

Un modo di fare cinema che anticipa i suoi colleghi Shinya Tsukamoto e Takashi Miike.

Sono due registi verso i quali nutro molta stima e ammirazione, in parte ci assomigliamo ma soprattutto abbiamo vissuto lo stesso destino critico. In Giappone non si guardano di buon occhio gli artisti che non condividono le regole sociali, Tsukamoto e Miike, prima di venir apprezzati pienamente in patria, hanno riscosso maggior successo all’estero. La stessa cosa è accaduta a me. Facciamo un cinema diverso ma non per questo così distante. Tsukamoto possiede una concezione dell’immagine simile alla mia, Miike una carica eversiva che ricorda alcuni dei miei film. Non so se per loro ho rappresentato un modello, ma mi fa piacere essere accostato a due nomi così famosi.


Visitor Q e The Happiness of the Katakuris sembrano debitori del suo Crazy family (1984).

Potrebbero ma affermarlo non sarebbe totalmente corretto. Con Crazy family ho cercato di sottolineare le storture di un sistema sociale scherzando sul nucleo domestico, la mia è una commedia dissacrante, una presa in giro divertita con una finalità critica. Miike in questo mi assomiglia molto, ma è una questione di affinità relativa a determinati pensieri, non necessariamente di film che hanno ispirato altri.

Qual’è il motivo che dal 1985 al 1993 la portò ad assentarsi dai set cinematografici per dedicarsi esclusivamente ai video musicali?

I motivi furono due: la difficoltà nel reperire finanziamenti adeguati al tipo di cinema che intendevo fare e la contemporanea richiesta di registi di video clip. Nonostante il successo di alcuni film continuavo ad essere visto in Giappone come un regista scomodo, da qui la decisione di dedicarmi ad altro, non meno interessante e stimolante.

La sua collaborazione più importante resta quella con gli Einsturzende Neubauten.

Sono rimasto molto colpito dalla concezione industriale, metropolitana e per certi versi apocalittica della loro musica. Il video di ½ Mensch è il risultato di una collaborazione tra artisti che la pensano in una certa maniera, le loro sonorità si sposano alla perfezione con una parte della mia filmografia, la stessa che la critica definisce cyberpunk. Il suono o in questo caso il semplice rumore sono al centro di tutto. Il mio cinema è un video clip dilatato, senza la musica non ci sarebbero le immagini


Il maestro di Shiatsu (1989) e Il labirinto dei sogni (1997) conducono il suo cinema verso altri orizzonti. 

In parte è così, in parte no. Quando mi sono avvicinato al cinema ho cercato di mettere in scena le conseguenze che gli errori della società potevano causare, attraverso la figura dell’individuo come vittima, sulla società stessa. I miei film giovanili parlano di questo. Raggiunta la maturità, e dopo un periodo di pausa per certi versi obbligata, ho sentito la necessità di mostrare il lato maggiormente meditativo della mia personalità artistica: dalla manifestazione superficiale dei sentimenti ho provato a concentrami sul cuore dei personaggi e delle storie che raccontavo. Il maestro di Shiatsu, Il Labirinto dei sogni, così come Agosto in acqua (1995) e Lo specchio dell’anima (2005) parlano di questo, magari con meno rabbia esteriore ma con la stessa attenzione ai dettagli emotivi.

Angel Dust (1994) e Gojoe (2000) rientrano in questa nuova versione dell’Ishii Sogo regista?

Decisamente si. Entrambi hanno segnato il mio ritorno ad una cinema per certi versi di genere, ma guardandoli è facile rimanere colpiti dal loro stile compassato, riflessivo, in alcuni momenti persino meditativo; nonostante si tratti rispettivamente di un thriller e di un film in costume.

Eletric Dragon 80.000V (2001) e Dead end run (2003) segnano il suo ritorno al cyberpunk, merito del successo di Angel Dust e Gojoe?

Firmare film che hanno un buon riscontro di pubblico aiuta ad avere credibilità e in alcuni casi convince chi ti finanzia a rischiare un po’ di più su di te dal punto di vista economico, lasciandoti maggiore libertà creativa. Detto questo è vero che da Città esplosiva a Eletric Dragon 80.000V i tempi sono cambiati, diventando più maturi per produzioni di questo tipo. Oggi il cinema giapponese può permettersi di puntare con decisione sul mercato estero, la richiesta di certi film è aumentata con l’affermarsi dei nuovi supporti audiovisivi. Negli anni ’80 era molto più difficile affermarsi girando un film cyberpunk perché il successo della pellicola era legato esclusivamente alla sua distribuzione nazionale in patria.

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