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ANNIENTAMENTO di ALEX GARLAND: L’Alieno e la Macchina

annihilation 

REGIA: Alex Garland
SCENEGGIATURA: Alex Garland
CAST: Natalie Portman, Jennifer Jason Leigh, Gina Rodriguez, Tessa Thompson, Oscar Isaac
NAZIONALITÀ: Stati Uniti d’America, Regno Unito
ANNO: 2018

Quella che tutto a un tratto colpisce la Madre Terra ha i contorni, rifratti e pastosi,
di una malattia marziana. È uno spazio tumorale, un limbo magmatico color
aurora boreale. È l’Area X, una parete liquida e osmotica che si estende a
implacabile macchia d’olio a includere porzioni di pianeta sempre maggiori, con la
promessa di inglobare tutto e tutti. A sondarla ci hanno provato in molti, e a
tornare non è stata anima viva. L’unico superstite, 12 mesi dopo la missione e il
fallimento della stessa, è riaffiorato come un relitto da troppo tempo sul fondo del
mare, prosciugato dalla propria identità, e crolla ben presto in fin di vita; e allora
sua moglie Lena, professoressa, scienziata, innamorata, davanti all’incubo di un
secondo lutto si offre volontaria per l’ultima, disperata spedizione nell’ignoto
spazio profondo e alieno, unendosi a un quartetto ferito, una compagine di donne
di scienza che valica il confine per salvare ciò che resta del mondo, e se
necessario sacrificare ciò che resta di loro stesse (dice, profeticamente,
Sheppard: «Quando è morta mia figlia mi è sembrato di perdere due persone: lei,
e colei che ero»).
Il futuro, per Alex Garland, non è nero pece: ha le vibrazioni ipnotiche e
perturbanti di un Eden compromesso, le profondità ellittiche di una mutazione in
fieri a cui abbandonarsi senza guardare indietro, il faccia a faccia primordiale con
una creatura messa al mondo senza un perché. Accostando Ex Machina, il
folgorante esordio dell’autore britannico, ad Annientamento – tarkovskiana
rarefazione sentimentale, un Picnic a Hanging Rock geneticamente modificato – si
ha la sensazione di un parto gemellare, nonostante l’opera seconda (in Italia
uscita soltanto, malauguratamente, sulla piattaforma di Netflix, che la condanna ai
limiti di visione e sogno del piccolo schermo) sia tratta da un testo altrui,
l’omonimo romanzo sci-fi di Jeff VanderMeer (il primo di una trilogia). Eppure, i
due film di Garland si scrutano a distanza, si danzano intorno, infine si calano
l’uno nella pelle dell’altro, giustapponendosi non soltanto attori già feticcio (Oscar
Isaac è ormai garanzia di demoni sotto la pelle), ma pure e soprattutto squarci
panoramici e flash amniotici.
Una, anzi due, sequenze su tutte: i (doppi) pre-finali ammutoliti, di tremore
primigenio, di puro sguardo, corpo a corpo e specchio contro specchio, dove
sin(es)tetico, umano ed extraumano, terrestre ed extraterrestre (e composto
filmico, celluloide) si compenetrano, si sdoppiano o forse si scambiano, nascono
l’uno nell’altro (o al posto del). Una  transustanziazione laica, che può accadere
solo in un altrove fuori dal reale, in un portale aperto dentro di noi.
L’alieno senza nome, così come la macchina umanoide (l’Ava/Eva), può solo
tentare un’emulazione, che parte dal primo bagliore di vita che conosce (e che è
sempre, nella poetica di Garland, un atto violento), per poi evolvere.
Manifestamente lì, sottilmente qui. L’annientamento non è (davvero) esogeno: lì
cominciava da noi, qui riparte da noi. Un’epidemia virale, annichilente ma non
nichilista, che (si) brucia per ricostruire il nuovo.

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