visioni

The Death and Life of John F. Donovan – Xavier Dolan: I can’t change my mold

Regia: Xavier Dolan
Sceneggiatura: Xavier Dolan, Jacob Tierney
Cast: Kit Harington, Natalie Portman, Ben Schnetzer, Jacob Trembley, Susan Sarandon, Kathy Bates, Thandie Newton
Anno: 2018
Produzione: Canada, Regno Unito

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Lo ascolto dallo spettacolo precedente: le note conclusive di “The Death and Life of John F. Donovan” sono le stesse del catartico finale di “Cruel Intentions”, quella sinfonia dolceamara che i Verve avevano campionato pochi anni prima da “The Last Time” dei Rolling Stone. Risaputi i gusti di Xavier Dolan, nulla ci impedisce di pensare che quest’inserimento, che porta con sé le tracce liberatorie di un pezzo ispirato (e generazionale), sia anche un voler rubare l’epicità di quel teen-cult impiastricciato di anni 90.
È sull’apertura enfatica che tanti film di Dolan si davano la parola “fin”, quella di una fuga prigioniera di se stessa che sanciva il ripetersi della natura animale umana nella corsa struggente e definitiva di “Mommy”, per esempio; ognuno, a suo modo, che fosse in salsa melò intimista (“Laurence Anyways”) o thriller (“Tom à la ferme”), era il luogo di un percorso torturato per uscire allo scoperto, chi per (ri)nascere, chi per morire (“Juste la fin du monde”). Bittersweet Symphony, nell’epicità irripetibile del suo motivo, sembra aprire, per un attimo, il cuore di questo Donovan che, forse per la prima volta nel cinema dolaniano, non batte: anche noi vorremmo sorridere dal sedile di una moto come Rupert (cresciuto, lui sì, libero), o guardarlo andarsene dalla finestra di un locale, alzando gli occhi al cielo, sorridendo a nostra volta. O, perlomeno, anche noi vorremmo provare lo stesso. Eppure, nuovamente per la prima volta, lo stesso Dolan sembra non provare nulla. Gli archi si spengono, dopo qualche secondo di ringalluzzita commozione, la musica si fa muta, i titoli di coda non servono a supplire l’amarezza di una sola evidenza. “The Death and Life of John F. Donovan” (che chiameremo, più amichevolmente che per comodità, Donovan) è un corpo mutilato che appare, imbracciate le stampelle, un magistrale tentativo (nel montaggio, soprattutto) di sorreggimento, in autonomia, di un organismo non più (o mai stato) organico. La ridondanza è d’obbligo. Quattro le ore di girato originale, due approdano al final cut, diversi i caduti nella battaglia dell’arte (Jessica Chastain, fatta fuori perché d’ingombro), pochissimi i resti e le sopravvivenze archeologiche in una membrana che di fatto non esiste. Esistono le scene, singolarmente pure belle, esiste la stessa (irriducibile) capacità di mettere in immagine volti, ambienti (sempre più chiusi e claustrofobici anche quando in esterna), arranca (ma sempre bussa) persino la marca autoriale: a mancare quel percorso disperato e assoluto che gli amati personaggi di Dolan hanno sempre compiuto con onestà ed impatto empatico fuori dal comune. Manca, d’altronde, il personaggio stesso. L’artista-attore-confidente di cui il film nulla ci dice viene meno anche negli occhi (da cui dovremmo guardarlo) del bambino-fan: non ne capiamo l’innamoramento, la genesi del rapporto, giacché a mancare è il conflitto, l’intreccio (se non per un supposto affair travagliato di Rupert-bambino con la madre, l’ennesimo, che si risolve in maniera del tutto separata dal plot principale). Quale plot?, qualcuno potrebbe, legittimamente, addurre. Le formule, stanche, si affastellano; Dolan, alle soglie dell’auto-parodia, sembra ancora intento a dover sbrogliare quella matassa narcisistica del rapporto con la Madre. D’accordo, siamo qui ad ascoltarlo: ma non così. Rimane il rimpianto non tanto del “brutto film” (sarebbe più giusto chiamarlo con la sua negazione), quanto dell’aver esperito di un ri-montaggio affannato e doloroso a fronte di un oggetto originale che, per quanto probabilmente fuori sincrono e schizofrenico, sarebbe stato interessante indagare, e non per gusto sadico da detective ficcanaso, quanto piuttosto per rinvenire l’idea, il progetto che, in nuce, questo Donovan canta senza smentire, né adombrare. È un’amara e dolce sinfonia, sì, nella quale risplende intatto il talento di un cineasta che sembra aver chiuso una fase di carriera, e di vita, per la quale ha speso e detto ormai tutto. Si ripartirebbe, auspicabilmente, da una tabula rasa: il piccolo-medio budget, nuove maestranze o cambiamenti di registro in DOP (Turpin, anch’esso, sembra contribuire al ripiegamento ostinato degli stilemi), nuove storie, a raggio moderato e familiare (come sembra aver fatto in “Mathias e Maxime”, in uscita tra l’autunno e l’inverno – speriamo – in Italia), per riabbracciare il senso del proprio sguardo. Anche lui, come John, attore in combutta con se stesso, auto-negatosi fin dalla prima inquadratura, sembra aver perso di vista, prima di un focus, un battito, il proprio. E quello di un cinema che, in barba agli inossidabili critici che gli hanno sempre rimproverato l’edonismo dei sentimenti, ha sempre tentato, a tutti i costi, con un’ostinazione indefessa garante di piccoli miracoli, di mettere una tecnica spavalda e impressionante al servizio dei suoi protagonisti e delle loro criticità relazionali, tra lotta identitaria e scioglimento imperfetto, e quindi imperterrito, delle ferite domestiche. Vorremmo lo stesso film, girato da capo: il rapporto coi propri idoli può sfondare la quarta parete, e con esso l’arte, come vita, imbrigliarsi nella propria, cambiandola, trasfigurandola? Si muore per non aver avuto il coraggio di darsi a se stessi per quel che si è? Per queste domande Dolan, ancora, non ha una risposta. Per noi, ma nemmeno per sé.

 

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