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7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE di Drew Goddard: copiare male, copiare tutti

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Regia: Drew Goddard
Sceneggiatura: Drew Goddard
Cast: Jeff Bridges, Cynthia Erivo, Dakota Johnson, Jon Hamm, Sullivan Cailee SpaenyLewis Pullman. Chris Hemsworth, Xavier Dolan
Anno: 2018
Produzione: USA

Forse è caduta la maschera, forse Goddard fino ad adesso ha avuto unicamente colpi di fortuna: il Cloverfiled da lui ideato arrivò al momento giusto, Quella casa nel bosco resisteva (ed alcuni anzi esaltava) grazie al suo meccanismo (del quale qui ritroviamo vaghe tracce, in un voyeurismo irreggimentato e a suo modo fertile), il The Martian da lui scritto era il risultato di avvenimenti favorevoli (cosa non rara nella carriera di Scott, che lo diresse), il Daredevil di Netflix partiva bene e fino ad ora ha retto recentemente, salvo convergere con gli altri Defenders fatti con due scatole di cartone, sempre sulla piattaforma; il tutto senza contare i lavori televisivi precedenti (Lost su tutti).

Una carriera di successi, insomma. Ma è evidente che il posto di Goddard è alla scrivania e non dietro la macchina da presa. Questa volta, forse, neppure. Perché, come detto, se Quella casa nel bosco trovava la propria ragion d’essere nel concept, 7 sconosciuti a El Royale ha motivo di esistere solamente sul computer di un quindicenne acneico e non troppo brillante che ha deciso di scrivere un film dopo averne visti: quattro di Quentin Tarantino, cinque dei fratelli Coen (e nemmeno dei migliori) e Tre manifesti a Ebbing, Missouri senza aver capito alcunché di ognuno di questi.

A cosa può servire rifare i Coen se già i Coen sono fin troppo Coen, se Tarantino è vivo e vegeto e se in McDonagh possiamo aver fiducia?

L’unico plauso possibile è quello del coraggio inconsapevole del copycat, del ragazzino fanatico ed innamorato di una certa idea di cinema e che prova a fare proprio quel determinato cinema, ma senza le capacità e soprattutto le profondità (rigorosamente plurale) dei suoi punti di riferimento. Il risultato è un film di calcestruzzo, pesante e privo di “nutrimento”, mortifero, incapace di stringere dove sarebbe stato utile e di allentare dove sarebbe stato opportuno, in cui messa in scena, macrostruttura e dialoghi vanno ognuno per i fatti loro, come pezzi di un puzzle senza figura a causa di una regia assente e smarrita, priva di una visione d’insieme, come fosse stata messa in mano all’unico mestierante disponibile durante un’epidemia, che di una sceneggiatura così blindata ed inchiodata a terra quanto aggressiva e “rumorosa” come un cane di piccola taglia di quelli nervosi, fastidiosi e spocchiosi.

Il Goddard sceneggiatore esaltato e il Goddard regista sembrano non essersi mai incontrati, con il secondo privo degli strumenti per comprendere e scavare nel lavoro del primo, così quel che già di pressappochista, sconnesso, abbozzato c’è nello script finisce con lo sparire del tutto nella fanfaronaggine a buffet della messa in scena.

Film da sagra, più che festa o festival, con tutti i suoi fenomeni da baraccone taroccati: Jeff Bridges che fa un po’ Jeff Bridges e un po’ Samuel L. Jackson, Jon Hamm che fa Christoph Waltz, Dakota Johnson che fa la femme fatale da bignamino con tanto di cognome superchatcy (Summerspring), Chris Hemsworth che fa Channing Tatum. Tutto il cast in realtà sembra dare il meglio, ma si tratta di un film senza fondamenta da qualsiasi parte lo si prenda e che sta in piedi solamente perché tutte le scene sono state girate: la regia annulla lo script, lo script annulla la regia, i dialoghi affondano il plot, il plot annacqua i dialoghi.

E Goddard sembra vivere totalmente in questa illusione di controllo e perfezione supposta: sempre concitato alla ricerca della punch line, in una forsennata corsa alla scena iconica, con le dita insanguinate a furia di battere sulla tastiera idee da “storia del cinema” con il grave ed imperdonabile peccato di non star pensando in primis alle storie, aggiungendo particolari “misteriosi”, farneticante un climax da applausi là dove l’interesse è presente solo per dovere spettatoriale (il famelico “vediamo come va a finire” quasi aprioristico). E l’altro Goddard, il regista, sembra veramente non averci capito niente, calmo timbratore di cartellino che non attende altro di chiudere gli shot in scaletta e andare a casa. Il montaggio, infine, sembra affatto a intuito e deduzione dall’apprendista di turno.

Preferiamo vederlo così, Goddard: scisso, bipolare, incantato come in un teen movie dei più dreamy mentre scriveva e sedato come l’ultimo uscito da un TSO. Perché pensare che lui possa aver consapevolmente messo in scena uno script del genere in questa maniera è di gran lunga più agghiacciante.

Ah, c’è Xavier Dolan per tre inquadrature e due minuti.

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