INFERNO di Dario Argento

REGIA: Dario Argento
SCENEGGIATURA: Dario Argento
CAST: Eleonora Giorgi, Irene Miracle, Gabriele Lavia, Veronica Lazar, Leopoldo Mastelloni, Daria Nicolodi, Sacha Pitoeff
NAZIONALITÀ : Italia, USA
ANNO: 1980
USCITA: 7 febbraio 1980

ONOMATOPEA DELLA MORTE #2

Dell’Argento vivo, del nitrato d’Argento, dell’Argento morto. Ma la migliore distinzione: tra l’Argento che sa(peva) parlare coi morti e dei morti e, soprattutto, della morte (anche se mai Dellamorte – pur avendovi aperto la strada) contro quello che non riesce più a dire niente. E non (solo) dei gialli e degli assassini (degli stili, dei moventi, dei traumi), necessitando ancora (almeno) un bivio: tra l’Argento dei vivi (vittime, indagatori, passanti, pedine) che la morte antagonista schivano e schiacciano e  braccano, e quello dell’oblio, che non parteggia né patteggia, senza malesseri, omicidi o alfieri da portare da una location all’altra, aldilà della necessità delle “risoluzioni” registiche, dei buchi narrativi (da evitare, riempire, rifinire) e delle maestranze intrinseche e di quelle ostentate: l’Argento sovrannaturale andrebbe detto piuttosto – giro concluso – il più naturale degli Argento possibili. Suspiria (prima di tutto e soprattutto), Inferno, Phenomena, lasciando nell’indeterminato fuori-tempo(-massimo) La Terza Madre.

Della naturalezza: quella di un’intuizione unica che si dipana, o di un aspirapolvere di pensieri (neri), dire «Morte» e aggrovigliarsi attorno ad essa, farne l’unica entità descrivibile (calda e fredda) possibile, facendola colare come resina, scegliendo una delle forme possibili, una manciata delle sue possibilità, e un luogo in cui condensarle, come se case demoniache e porte infernali materializzate in edifici fossero flora-umana-infestante nata bruta ed istintiva dalle fondamenta dell’asfalto senza (in un gioco all’inverso) che questo processo biologico del richiamo al macabro, al defungere, al torpore orrorifico, all’affogare nella negazione e nell’infatuazione oscura venga interrotto da qualche spinta vitale diventata, a questo punto, innaturale e mortale per la rappresentazione – la botanica transtradizionale dell’attrazione/del disgusto dell’artificio (come palesemente set, come palesemente effetto, come consapevolmente finto ossia creato dall’uomo).

Se di diverse pellicole passate di Argento devono la loro persistenza nel fascino dovuto all’età, ad una ingenuità monumentale che oggi sembra impossibile, ad un’eccessiva mitizzazione, Suspiria ed Inferno esplodevano (e ancora tagliano, forse ancora meglio, sopravvissuti e decontestualizzati) nel loro essere due devozioni assolute all’arredare i cantieri di un mausoleo globale e vanitoso del suo camp (o del limpido cattivo gusto), della sua grossolanità, dei suoi grossi blocchi non ulteriormente scomponibili: due film in cui Argento sembra consapevolmente non uscire dalla propria cameretta, facendo di un volume e delle proprie cianfrusaglie infinite possibilità dimensionali (ma scelte, una e poi l’altra; o da cui s’è fatto scegliere) senza vicenda ma con continua materializzazione di un’eco, dell’unitaria Eco argentiana.
Inferno, un titolo casuale. Inferno, la luce rossa e la luce blu, tanto da rendere le scene diversamente illuminate giallognoli conati di realtà. Spirale spigolosa di avvenimenti anche descrivibili come negazione degli stessi: la morte, unica protagonista di Inferno (e Suspiria) non è nemica, non è da indagare, non ha dimensione temporale, né colpe o la spinta al duello o alla sopravvivenza, ma viene lasciata sgorgare e prosciugare dentro un imbuto, tra decorazione e necrosi. L’incipit precipita subito – il libro, le Tre Madri, un incontro macabro, una discesa in cantina, il nuotare, un cadavere a mollo, le vetrate, l’invincibile richiamo alla bicromia, le visioni su Giuseppe Verdi: tutto ciò che verrà, e che verrà espanso, nel film. L’assenza di protagonisti completi e di simboli contestuali, la minore estetica dei decessi violenti, il vagare nottambulo del tutto: Inferno è la camera oscura e il processo di sviluppo di una fotografia di cui il soggetto è tanto ben conosciuto quanto difficoltoso da prendere.

«Ho fatto una seconda foto alla morte» potrebbe dire Argento, «Meno bella della prima» qualcun altro. E si può concordare. M la differenza (o la distanza) effettiva tra Suspiria ed Inferno è solo una: il primo sopravvive, si dirada, continua dopo la visione, si estende, si fa gas contaminante e senza cura, orienta tutto ciò che lo segue (e in Giappone lo sanno); il secondo riesce ad autoconfinarsi, a chiudersi, a diventare il proprio muro, senza ispirazioni successive, senza concedere prestiti, senza fornire sogni. O ancora: per rivivere Suspiria basta pensarlo, Inferno è necessario rivederlo. (S)forzando: stato gassoso e solido della morte, con La Terza Madre che avrebbe potuto essere quello liquido. Ma (s)forzando ancora, nella memoria non proprio enciclopedica, Inferno un seguito l’ha, se non uno specchio deformante: E tu vivrai nel terrore… L’aldilà di Lucio Fulci, con i suoi titoli di testa sulle stesse fiamme su cui scorrevano quelli di coda del film di Argento, con la stessa dismissione della trama, con la stessa cara vecchia compagna.

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