sguardi

Xavier Dolan – Qui m’aime me suive : love beyond reason

laurence anyways xavier dolan  2

“La mente creativa sembra dover affrontare più di una volta ciò che la maggior parte degli uomini risolve una volta per sempre nella tarda adolescenza o nei primi anni dell’età adulta. […] Ma l’individuo irrequieto, e soprattutto originale, deve, bene o male, alleviare una persistente reviviscenza della colpa edipica con la riasserzione della sua particolare identità”.

L’onnivorismo, Dolan, il ramificato estendersi di braccia budella cuori e cinefilia. Nel pastiche (più che mai imitativo), ove captiamo il parossismo di una poetica zeppa, spasmodica, neo-romantica, ci si abbaglia di coesione eterogenea che si vivifica di contraddizioni, di sostrati e figurazioni nevrotiche, latenti fissazioni, materiale lucente per l’indagine psicoanalitica dis-armonica, beatitudine estetica astuta, giustificatamente compiaciuta in modalità del tutto ontologica, auto-percettiva, multi-sensoriale, privata e,  più di tutto, sfacciatamente sentimentale. La sostanza, il sentire, il patire, la cascata di acqua che pervade e aggredisce il corpo di Fred in Laurence Anyways è pura programmatica poetica di un arte: lavora per metafore di esplicitazione dei moti interni, che Dolan ha bisogno in primis di guardare, di raffigurare, di circoscrivere nel quadro, nel gusto pittorico, per poterle vivere. Il sentimento va visto per essere sentito. L’impressione permeante è la necessità primaria e insita nel filmico di aggrapparsi (di abbandonarsi) a un atteggiamento spettatoriale il più possibilmente terminale e impressionistico; per essere come Dolan, perché Dolan è anni e anni di assorbimento e venerazione di altro cinema, di idea della fugacità, di peritura caducità, di estremizzazione della vita vera, istintiva, stracciante, lacerante, di cuori, e di ferite di cuori, di ferite edipiche, sovra tutto: il cuore parla, il cuore risponde, l’altro è solo la madre (il cuore), e proiezioni di Lei, segnali ovunque, perché Dolan fa film della, sulla, per la sua immagine interiore, per sé stesso, come sé stesso, per ricucire. Impressionismo del mondo sensibile, lasciandosi fagocitare, rispondendo alla richiesta della sensazione, della pulsione, come un puro “guardare” dei fenomeni esistenti in virtù della proprio coscienza: Dolan attore (e non) satura l’immagine di sé stesso come un’urgenza, urgenza melodrammatica di essere, esistere. Sfruttare l’esperienza – esperire, empiricamente – del mezzo immaginifico come specchio ed estensione del proprio “io corporeo” mediante la rappresentazione raffigurativa, in una viscerale impellenza di riconoscimento estetico, di auto-conferma della propria esistenza tramite la trasposizione (semi) autobiografica, di rifuggire nell’arte per curarsi, smembrare ossessioni come catarsi personali, abbaglianti, a filtro minimo, nudo. L’età anagrafica di Dolan, regista imperfetto, trasbordante, è rintracciabile soprattutto nel piacere autoscopico dell’adolescente di essere guardato e ammirato, legittimamente e unitamente a quella sindrome che Sartre esplicava descrivendo un sé stesso bambino recatosi al parco, ove non veniva degnato di uno sguardo dai suoi pari, solo e umiliato: i personaggi, le sue ego-proiezioni, sono esseri sempre ostracizzati, passivi, che guardano all’alto dei loro idoli, che siano le madri o le loro protesi, pure maschili (la madre Chantale, su tutti, Francois – che non a caso lo accudisce, lo riporta all’antico nido materno, nella sequenza in macchina che replica quella iniziale insieme alla dispotica/amorevole madre – Nicolas, angelo efebico marmoreo divinità distante androgina da ammirare, da detestare, a cui aspirare, da cui essere respinto, Fred, che non può rimanere con Laurence, perché desidera un uomo, ma quando ne trova uno, non può erigere alcun stabile nucleo familiare, perché più di tutto si è in – comunicanti e incomunicabili, perché uomo e donna è il conflitto inconciliabile di un figlio che soffre per una lacerazione edipica che fatica a cicatrizzare. La retorica dell’archetipo materno impregna enfaticamente opere che a essa non possono fuggire, seppur esecrando, seppur amando: Mommy.


tom a la ferme

“Do looks matter to you?”

“I don’t know.”

“Does air matter to your lungs?”

Stupisce l’estetismo stilistico sottotitolato (a)criticamente da un’addebitata stilizzazione narcisista che non vede altro fine se non sé stessa: il mezzo – per estensione, il bello – in Dolan deve veicolare l’attrazione emozionale attraverso i propri strumenti, facendone uso volutamente smodato, esacerbato, talvolta stonato, ma nella indiscutibile propensione all’auto-saturazione emotiva come filosofia post-romantica di aggravamento delle pulsazioni, di accelerazione di battiti, patologia anti-naturalista dell’iper-sensazione; il senso della seduzione visiva è il significare uno sguardo, amplificandone il sentore, poiché il tutto dev’essere vissuto doppiamente, nell’iperbole straziante dello strapiombo affettivo, nel vitalismo del non possedere, perché non si può, ‘cause we were born this way, baby. Impotenza e umiliazione dell’essere, incarcerazione esistenziale, emarginazione interiore, mai sociale, allunaggi strabici, spleen. Da lì, lo slow-motion, linguaggio dell’affezione: il rallentamento corporeo è la pesantezza del percepire il proprio dolore infinitamente millesimale e infinitamente grande, che sia declinato rabbia, che sia declinato amore, è semiotizzato alla stessa maniera, è identica materia, tradizionale melò. Dolan è un’anima antica troppo vecchia, che sembra aver già sentito tutto, come la musica si sdoppia tra tendenze wagneriane e new wave, e il suo cinema rimane da limare, compiaciuto delle proprie sbavature, del traboccare dei propri stilemi. Il decalogo degli espedienti dolaniani è enciclopedia di rielaborazione pedante e scrupolosa di artifici cinematografici sovra-esposti, già ampiamente esauriti(si) dalla storia del cinema, ma pare anacronistico e scorretto riesumare, chè l’impasto diegetico, agendo per contrasti e disorientamenti cromatici, inserti semi-pittorici patinati e iconoclasti, formalismi e ambientazioni kitsch, ripetizioni, scritte godardiane sempre più pop, camere a mano e insistenti primissimi piani, è pertinente, spesso significante, ammiccante, su tutto travolgente. Dolan sa che sono doverosi gli attori feticcio, Dolan si innamora di tutto ed è imprescindibile essere come lui, devozionale, magniloquente, irrazionale negli intenti, ragionatissimo nella simmetria delle proprie opere. Onnipotente come una camera-stylò, si spende il volontarismo dell’amore, l’intimità assoluta con il film da amare, si difende in nome della politique. E le caricature, l’eccesso, le isterie di Fred, talvolta stucchevoli, denuncianti l’artificio, il meccanico, domandando un medesimo male, parlano a pochi, ai simili, agli elettrocardiogrammi impennati e alle tachicardie viventi, “c’est special”, always. Gli esseri divisi, l’espressionismo di una visione interiore si traduce nella bocca sporca di Chantale che è disgustosa per Hubert, congiuntamente al gusto trash degli interni domestici, traduzione estetica di un disagio e di una diversità ostinata ed esecrata, soggettiva mentale; i piani decentrati riuniscono madre e figlio impegnati nella relazione amorosa ove Hubert non può amare Chantale come una madre, ma l’ama nel candore del complesso edipico, l’ama, e l’immagine restituisce l’amore non verbalizzato mediante la propria langue. Le nuche di Francis e Marie de Les Amours Imaginaires sono tristi, Nicolas è dio, la ripresa di spalle non lo tange. L’esubero della coscienza di entrambi nella competizione dipinge il narciso irraggiungibile in un ballo blu al neon (il ballo, vero tòpos autorale) mediante montaggio intellettuale, divinità greca, similitudine concettuale scolastica, denuncia tutta la sua natura di apprendimento didascalico. E Tom à la ferme, ennesimo spirito sottomesso, masochista, intraprende il percorso salvifico (?) verso la brutalità e la bestialità, violentato da Francis tronfio nella bandiera americana, ed è immediato il parallelismo finale di Wainwright sussurrante “I’m so tired of you, America”. L’orrore diventa, si propone di essere pedagogico, ma, nel ritorno all’urbano, la sospensione del pensiero, come sospeso il finale di J’ai tuè ma mere, insinua il dubbio del pellegrinaggio a vuoto e dell’insensatezza di ogni chè. Le chiusure, il cinema classico che Dolan divinizza, il conclusivo atto di Laurence Anyways, dramma di un regista che pensa al cinema come un europeo e alle storie americane dall’universalismo arrogante e abbracciante l’intero. Dolan, evidentemente, gioca, tra sillogismi, paragoni, metafore, estetismi, strutture circolari, vestiti policromi che piovono surreali, primi piani impenitenti guardando a Bergman, aderendo ai volti e ai personaggi come una maniacale preghiera, inseguendoli sempre, Dolan schizza via.

Il processo di riparazione del proprio Io, tuttavia, non si interrompe. Non si riconcilia, l’immagine di sé sullo schermo dev’essere reiterata, fino a Mommy: “Avrei voluto interpretarlo, ma sono troppo vecchio”.

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