LA MIGLIORE OFFERTA di Giuseppe Tornatore

REGIA: Giuseppe Tornatore
SCENEGGIATURA: Giuseppe Tornatore
CAST: Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2013

USCITA: 1 gennaio 2013

CHE CI FREGANO SEMPRE: LIFE WAS BEAUTIFUL BEFORE ADAM & EVE (CIT.)

Ci sono sempre stati (almeno) due Tornatore. Quello delle epopee e quello delle piccole/macroscopiche imprese interiori. Quello dei monumenti fuori (dal) tempo e quello del solitario soccombere. Sussulti di storia vs. storie di un singolo sussulto. Fedele ad una linea o un’idea: «La storia di un cinema, di un pianista, di un paese, di una donna» da una parte, distillati di thriller determinati da twist puri nel nervo(sismo) riassumibili in tre o quattro parole dall’altro. La migliore offerta è del secondo gruppo, ma con la contaminazione orchestrale del primo: la divisione netta non è più possibile, come se Tornatore fosse adesso giunto a determinarsi.

Così sia: Giuseppe Tornatore è meglio come regista di thriller. Il regista di Questo thriller. Come in un ciclo che si ripete: l’orbitare e la spietatezza de La sconosciuta a supplire la mancata fecondità di Baarìa, insieme come tramite per giungere a questo imperfetto ibrido.
La migliore offerta: aggiudicato, assoluto, assolto, (as)sorto, che ci mostra assieme tutti i Tornatore possibili. La necessità, le necessità: d’una retorica che sia palesata (se non sbattuta in faccia), d’un sovraccumulo esondante in ogni istante di dati, di un virtuosismo affabulatore intelligibile fino all’eccesso, d’una struttura che sia una corazza, un guscio (di conchiglia, a spirale) e non uno scheletro. Il Cinema di Tornatore è Cinema del tempo e della meccanica, che più che narrare fatti, si ciba della stessa narrazione: ogni momento è zavorrato, al di là dei riferimenti espliciti, di passato, della sensazione che un minuto o cento anni siano trascorsi, e che quello che vediamo non sia né l’originale mai-nato ed incontaminato né il già-morto ma, nell’ossimoro, uno statico mutare, protratto quanto (de)terminato, come se le immagini, ansiose di essere esplicite dentro l’occhio, mai lo raggiungessero, scivolando lentamente all’indietro come su una superficie molle ed inclinata, come un’illusione ottica, appiccicata allo spettatore ma inafferrabile. Quello di Tornatore è sempre stato un Cinema facile da guardare, ma mai semplice/accettabilissimo da concepire.

Una spinta verso l’atto dell’istante destinata a fallire: nel suo Cinema l’accadimento è già accaduto e ciò è insanabile, e Tornatore sembra ormai saperlo, se con ansia quasi psicotica corre di scena in scena (non senza quei brutali stacchi di montaggio che solitamente si vedono nei blockbuster americani).

E basterebbe la prima manciata di minuti de La migliore offerta: uno scantinato e il suo mobilio abbandonato, Rush che ne elenca le caratteristiche, poi una cena solitaria, il silenzio, l’insistenza su una candela (e una solitudine) che si consumano, la professionalità, l’asprezza. Il tempo, il tempo, tutto il tempo che è passato e che passerà. Ostentato tanto da apparire volgare e per tutti, oltre i limiti necessari per un’ammirazione generalizzata: con La migliore offerta, Tornatore accetta finalmente le proprie eccedenze e la sua incapacità di stare immobile e supera la tendenza a mettere in scena per icone, abbandonandosi ad un’iconicità indefinita, troncando inquadrature e scene un istante prima che la malsana intenzione di una riflessione si possa presentare, schivando le proprie esagerazioni arrivando a correre di genere in genere, dal ritratto di personalità al thriller, dal romance all’heist movie, consapevolmente, insoddisfatto di un unico mood, riposizionando il suo mystery da un angolo all’altro della sua stanza/scrittura. In un’inquadratura, Rush (ben prima di trasformarsi in Toni Servillo), durante un’asta, continua a rivolgersi e a muoversi a destra e a sinistra, ripetutamente: elegante ma sformato, leggero ma deciso, senza indugiare, sapiente, rifiutando l’immobilità, collezionando, archiviando, avidamente. Il suo personaggio è un collezionista e un truffatore: l’armadio dei suoi guanti, la sua galleria privata di ritratti femminili. Sfiorando le qualità non necessarie, accumulando l’idea(le) con ossessione, in sterminata quantità. Non una donna, ma infinite. Non la femminilità, ma le femmine. Gli esemp(lar)i e non l’assioma, dietro una muraglia di volti, lontano da ogni rischio: un avvenimento che è passato non può più fare del male.

Dalla meccanica collezionistica del rifugio e del rifiuto interiore alla macchinazione (fintamente celest(ial)e): l’offerta migliore è sempre un trabocchetto. Da qualche parte, forse, ha a che fare con l’amore, la bomba ad orologeria, i pezzi di un corpo nuovo, il divenire gigantesco di un ingranaggio che adombra tutto quando fino a poco prima si riusciva a tenerlo tra le dita. La migliore offerta è il film con cui Tornatore ci spiega come funziona e perché esiste il suo Cinema, anche se s’era capito da tempo. Chi amava amerà di più, chi odiava lascerà perdere.

Ribadendo, così sia: Giuseppe Tornatore è meglio come regista di thriller, con l’overload e lo spavento a cibare la messa in scena senza che questa ingrassi (Baarìa faceva fatica ad alzarsi).
Manuale d’amore (no, non Veronesi), manuale di come il terrore arriva, di come Adamo ed Eva e la loro carnalità bussino, e di come sia impossibile non aprire.

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