VENEZIA 2010 – Giorno 3: dans quelques femmes / in cerca di ansiolitici

Lost in translation friggeva come sul punto dell’esplodere; Marie Antoinette era i detriti di quell’esplosione (che non è mai stata fatta vedere). Somewhere potrebbe esser solo i detriti di questi detriti, anche detti cenere. Sofia Coppola si fa (sempre) meno estetica, ma sempre più disperata: non crea più, accosta: fotografie sul vuoto e dal vuoto. Di tutti. Nè uomo nè donna: i profili tracciati non hanno sesso, s’annodano sulla perdita (nella traduzione) di sè stessi: padre e figlia, madre e figlio, non conta. Disperati eppure così placidi. Come se fosse la bastarda di Kitano e non di Francis Coppola.

C’è il sesso a venir perso (da addormentarsi davanti ad una lap dance speculare), come prima massima di coinvolgimento, inSomewhere.
Come c’è il sesso a venir (con)dannato (a puro gesto animale), in Black swan.
Autore e autrice si scontrano, sono il negativo l’uno dell’altra: la fre(am)nesia più cupa e cinetica per Aronofsky, lo spiaggiamento sbiadito delle passioni per la Coppola. come se la Carrie di De Palma si fosse sdoppiata in due manifestazioni antitetiche.
Protagoniste silenzione dicono tutto. Corpi impuberi (per dovere di una ballerina Natalie Portman, per stato naturale di una ragazzinaElle Fanning): guardarli, e lì domandarsi chi essere, in incertezza più temporale che spaziale.
Fracassandosi per dovere, perdendo sangue dai piedi; o godendosi l’agio e la grazia dei pregi dell’avere un padre attore.
Pulsioni fisiche azzerate: il corpo è solo strumento o peso.
Il suggerimento: l’istinto non c’è. E’ passato o verrà poi, a film finito (quindi: mai). Nel darsi al 100% o nell’ozio completo: non esserci.
Assenteisti dell’anima, a tempo pieno in qualcosa d’altro. Un sacco di carne fanciullesca.
Dopotutto, Sofia Coppola ha sempre negato la pubertà. e Aronofsky ha sempre generato dei mostri (sacrificali). Antipodi, combacianti. Moneta dai lati bianco e nero, che gira (come una ballerina) e poi collassa (come un’inquadratura fissa sopra il minuto), e, rimbalzando tra questi confini, tra questi due (è ancora presto, forse, per dirlo) Capolavori, pare esserci tutto. La violenza e il candore, il gelo e il sole del mezzogiorno, il cinema da bocca aperta e quello da sguardo attento, la brutalita’ dell’angst e le lacrime secche del tempo perso.

Due registi di corpi femminili, accompagnati da prove minoritarie: nell’eccesso d’una Roberta Torre in I baci mai dati (dove la tendenza alla purezza che il titolo suggerisce c’è pienamente), dove si attende (anzi: si crea) un miracolo con cui la regista sembra volersi autostigmatizzare; o nell’accademicità (leggi: prevedibilità d’ogni singolo istante) di Miral; o ancora nell’esuberanza spoglia e (visivamente) imbarazzante della Breillat.
“Femminile” termine stretto. Passando dall’angelico, dal saffico, dall’ermafrodito, dall’infantile, dal feticismo, dalla pedofilia anche (che duemila anni fa si chiamava diversamente).
Corpi asessuati, colorati, evanescenti, orfani, vaganti, astratti, completi nel loro perpetuo essere in difetto, verso il Tutto o verso il Nulla; un volteggiare dell’immagine, anche statica, nel suggerimento di una domanda alle risposte sparse dateci. Forse a voce troppo bassa.

(A.T)

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IN CERCA DI ANSIOLITICI

Il lido è una fonte di stress e di ansia. Ancor di più quest’anno, dove tutti sembrano avere fretta nell’arrivare per poi sparire, levarsi dai dintorni il più velocemente possibile. Sembra non esserci più aria per respirare, delegazioni e stampa sono lì che cercano di rincorrersi, in un delirio circense certamente nocivo alla salute. Film alle 8.30 del mattino (orario killer, per uno che segue fino alla proiezione di mezzanotte), conferenza stampa alle 11 (e le domande stupidissime dei giornalisti stupidissimi non fanno che incrementare un certo wtf feeling), intervista alle 13, chissà in quale venue sperduto e fuori mano (perché a sto punto non direttamente a Mestre?). Nemmeno il tempo per cagare ma solamente per scoreggiare, ed ecco svelato il perché di una certa puzza dilagante attorno al Palazzo del Cinema. Sarebbe forse consigliabile una dose di paroxetina ad ogni singola persona che sta in questo Festival, per lasciare al tempo il suo flusso necessario nel metabolizzare immagini/attimi/obblighi. Siamo solamente al terzo giorno della Mostra e siamo già stressati, non fa bene alla nostra salute, anche perché il tanto pre-celebrato line-up di Marco Muller si sta rivelando sempre più una muffa. Se poi arrivi in sala stanco scazzato nervoso e c’è Ovsynki di Aleksei Fedorchenko, allora sei proprio fottuto, perché il film è l’ennesima dimostrazione di come i Russi abbiano un talento magico e speciale nel far sembrare una pellicola di 75 minuti una di 9 ore. E’ una di quelle opere la cui dilatazione ti fa invecchiare tutto d’un colpo, finendo per uscire dal Cinema ridotto come Gianluigi Rondi. E in un Festival ormai tanto impazzito e delirante, non sorprende nemmeno più vedere che una delle visioni migliori si riveli El Pozo di Guillermo Arriaga: rigorosissimo e (eastwoodianamente) spietato, con il pozzo del titolo automaticamente simbolo e metafora, come a dirci che siamo nuovamente e unicamente lì, nel solito buco nero (senza rivelazioni), il Settembre noir (sdoppiato), le spirali di fumo di Weerasethakul ancora senza direzioni, anni dopo. Oggi in un ieri che era già futuro ed adesso.

(P.H)

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