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Lars amandi: NYMPH()MANIAC VOL. 2 di Lars von Trier

nymphomaniac vol ii (2)

REGIA: Lars von Trier
SCENEGGIATURA: Lars von Trier
CAST: Charlotte Gainsbourg,  Stellan Skarsgård, Shia LaBeouf, Willem Dafoe, Jamie Bell, Mia Goth
ANNO: 2013

Non è mai stato così lontano da un qualsiasi senso religioso (quello spirituale – la natura come unica cosa pura – è sempre presente), anche perché proprio nei primi 15 minuti Lars prende le distanze dalla chiesa (quella occidentale, quantomeno), ma il termine via crucis è a conti fatti il più appropriato per definire la corsa a perdifiato di Joe nel secondo capitolo di Nymphomaniac, tra zone dell’incubo con aguzzini asociali e anaffettivi, inabili alle emozioni, da cui farsi torturare per spingere al limite la capacità di essere viva e se stessa (ma senza rinunciare all’elemento straniante: l’aggiunta della Silent Duck!), tra un sentimento materno tradito (soprattutto quello verso P, la ragazza dall’orecchio deforme: anche lei emarginata, anche lei sola, come Joe, come K, anche lei che tende le mani verso Joe, verso il sesso, per non esserlo più) e l’espulsione dal nucleo familiare, tra la discesa negli inferi che non trova pace nemmeno quando si incasella in un lavoro adatto alle sue “esperienze”. Un girone infuocato che però, nuovamente staglia incredibili momenti di demistificazione alle stelle (la scena dei due afroamericani che bisticciano anteponendo lo sfoggio della virilità, della supremazia l’uno sull’altro, al piacere, è una tra le migliori della filmografia vontrieriana).

Ma soprattutto, in Nymphomaniac vol. 2 la passione (divorante, estrema, totalizzante come solo una passione può essere) di Joe per il sesso alla fine si rivela una orgogliosa e lucente presa di posizione identitaria (e di genere, vedasi il commento prefinale di Seligman, didattico ma necessario), che si smarca dal giudizio castrante dell’occhio altrui. Perché noi tutti, infine, siamo corpi desideranti, ma se ciò che desideriamo, il desiderio che proviamo istintivamente, l’impulso al di là di noi, è proibito, è osceno, è vergognoso, allora anche noi siamo proibiti, osceni, vergognosi? E fino a che punto lo siamo noi, perché noi siamo il nostro desiderio? Von Trier ci si interroga continuamente, strappando la pelle alle immagini, per mostrarne la carne viva. Così facendo, rivela le incrostature ipocrite del mondo e della sua struttura, ma anche eleva attraverso la sua protagonista coloro che a essa sono resistenti. Joe, ma, appunto,non solo. Chi l’avrebbe detto che in un film come Nymphomaniac quello che traspare ancor più dello scandaloso, della ferocia, della provocazione, è l’amore di Lars per queste creature (e dunque per Joe stessa). E la profonda pietà, una pietà che pulsa sotto il disgusto di ciò che è esposto ai nostri occhi e al nostro giudizio, la profonda compartecipazione con quelle creature dannatamente diverse, aberranti, alberi smunti e sghembi nella sterminata bellezza della Natura (momento sublime, il suo albero); storti, come loro, come l’uomo torturato e poi cullato da Joe (l’insostenibile scena del pedofilo è emblematica di tutto questo). Perché per Von Trier è meglio la feccia (Joe, K, il pedofilo) degli ipocriti.

Ma soprattutto, noi siamo Joe come spettatori, che vanno a farsi del male andando a vedere un film come questo, che sanno cosa soffriranno, e che pur sapendolo, lo vogliono. Lo guardano. Guardano il dolore di Joe, e provano piacere. Siamo come Fido, il soprannome di Joe, cagnolini ammaestrati dalla società e dalle sue istituzioni. E qui, di nuovo, non abbiamo scampo. Von Trier una volta per tutte – e Joe – chiama le cose con il loro nome, mostra le cose come sono e non come piacerebbe che fossero, dice e ridice il suo strazio, si difende e attacca (“le qualità umane si possono riassumere in un’unica parola: ipocrisia” è una frecciata dritta dritta a quel Cannes che l’ha ostracizzato), insorge e si dibatte, sadico con noi e con Joe, masochista (le sedute da K di donne tristi: di nuovo, la religione cattolica, il bisogno autopunitivo della sofferenza), e come Joe in qualche modo si dilania per essere visto, riemerge impunemente nell’immagine, nel suo loop, ritorna, si ripete (Antichrist, il cui momento citato è a posteriori ‘solo’ un piccolo spunto), cerca la catarsi, sembra trovarla, ne riafferma l’impossibilità – come l’inessenzialità della redenzione. La perdita di significato, la stigmatizzazione del dovere dell’espiazione.

Joe si consegna consapevolmente a un destino di inalienabile sofferenza, ma è il destino di cui è stata artefice, e se le valvole di sopravvivenza sancite e ufficializzate come giuste e corrette dalla società non includono le sue, immonde, esiliate dalla comune decenza, insomma se il suo mondo, l’unico posto dove Joe può stare, non le può appartenere, perché non vuole conformarsi alla sua identità – e viceversa – allora Nymphomaniac vol. 2 non può che essere racconto di una passione nel senso di un dolore (una vita oscena, ma è l’unica che abbiamo), una storia in cui Joe tira tutti i fili possibili della ragnatela sociale e socialmente accettabile, fino al loro limite, fino a farli spezzare, almeno i suoi. Tramite la narrativa, unico canale attraverso cui può passare una solo apparentemente pacifica liberazione (narrazione come liberazione e accettazione di sé) e apertura all’altro. Almeno fino a quando l’altro, quella parte di mondo umano forse pronto a comprenderci (perché colto, aperto), non ci deluderà. Fino a quando, nell’ultima inquadratura buia e nelle ultime parole del film, si rigenererà inestirpabile il pessimismo cosmico (verso l’essere umano) di von Trier, paragonabile solo al meteorite che tutto spazza via in Melancholia – ma che, nemmeno lui, il male dell’uomo potrebbe disintegrare. In un finale (diciamocelo, un po’ appiccicato, soprattutto teorico) in cui Lars (purtroppo forzando il personaggio di Seligman, per il ghignante effetto sorpresa) rimarca l’importanza della scelta di Joe (anche della violenza: e denuncia così l’idea che ciò possa porre lo stesso Seligman in diritto di procurargliela, in ogni caso, sia lei volente o nolente). E inoltre sancisce la sconfitta della ragione: il corpo, l’istinto, ciò che siamo davvero alla fine vince. Lo hanno dimostrato quattro ore di film, lo riafferma il gesto di Seligman. Fa male (perché alla fine, che ne sarà di lei? E di noi?), ma lo sentiamo vero, vivido. Ed è così questo l’unico modo in cui possiamo amare il cinema di Lars von Trier: soffrendo, innervosendoci, turbandoci, ma alla fine sentendoci liberi.

>>> NYMPH()MANIAC VOL. 1

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