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COLPA DELLE STELLE di Josh Boone: Cinema demands to be felt

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REGIA: Josh Boone
SCENEGGIATURA: Scott Neustadter, Michael H. Weber
CAST: Shailene Woodley, Lancaster Ansel Elgort, Nat Wolff, Laura Dern
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2014

«Pain need to be felt», si ripetono di continuo, e instancabilmente, i protagonisti di The Fault in Our Stars, ultima faticaccia acchiappa-pianti , impersonale e silenziosa e carta carbone dell’acclamatissimo, omonimo libro pubblicato giusto un paio di anni fa. La dichiarazione-manifesto non solo orbita tutt’attorno all’opera per l’intera sua (dilatata) durata, ma ci consegna una delle tante, tantissime, ripetute citazioni letterarie (e letterali) come statuto da ammettersi senza porsi domande – ma non si esclude che il primissimo lettore, amante dell’opera scritta originale, possa godere dei suoi snodi fondamentali, chè lui già ne sa, e ne ritrova tutto. Un film che ambisce a essere libro non va mai, mai bene. E allora Josh Boone, inespertissimo regista alle armi prime, ricalca e ricama con palese rigore i passi, i monologhi, voce interiore che diventa voce-off e ogni tanto visione, lettere mai spedite e incastri e costruzioni testuali pensando pochissimo alla resa filmica. Senza sapere che il cine-occhio parla con mezzi a lui congeniali ma estranei alla letteratura, e per una resa ottimale di un’introspezione psicologica presente altrove (nel libro) può sì, usare il mezzo audio (le voci), ma, in primissimo luogo, deve saperle contestualizzare, e se può, imparare a tradurle in immagini. “Il dolore va sentito”, ascoltiamo, assimiliamo come eccezionale aforisma da libretto tascabile, ma vacilla il sottotesto, la profondità, la prospettiva, il collegamento tra parole e dispiegarsi filmico. Come va, come vuole, come deve, come è vissuto questo dolore straziante e inconcepibile che è proprio della malattia dei due giovanissimi e bellissimi protagonisti allo spettatore non viene spiegato; Hazel Grace, gracile e timida, giovata dai lineamenti docili e fini di Shailene Woodley, impazzisce per l’opera di questo mesto e pazzoide scrittore, ne fa suo motivo di vita, suo specchio e liturgia, ma, ancora una volta, non ne capiamo perché. O meglio, ne intuiamo i motivi, li leggiamo sulla superficie (della pellicola), li ricordiamo (forse) dal libro, ma in mano (davanti alle cornee) ci rimane soltanto una (s)fortunata storia d’amore adolescenziale, le evidenti ma solo da immaginarsi sofferenze che si patiscono con un cancro in continuo rigenerarsi, moltissime poetiche frasi, e un brutto montaggio – nessuna regia. Chè, probabilmente, i cancer movie debbano andare a scivolare (quasi sempre) nell’edulcorazione montata e incellofanata sembra quasi un’imposizione pro-vendite – a dire il vero, qui forse più saggiamente bilanciata che altrove – e allora la patina si sposta da una concitata figura materna sempre fuori dal pezzo, che altro non è che la trasposizione in camera dello spettatore che plaude allo zucchero della coppia (quel “siete così adorabili” pronunciato in aereo dalla stessa altro non è che la copia in DCP della dodicenne che qualche metro più in là siede con gli occhi a forma di cuore), all’applauso dei presenti che come un coro greco moderno guardano il primo bacio dei due al museo di Anne Frank durante la (eccessivamente prolissa descrizione della) visita ad Amsterdam, e per finire all’arrivo in carrozza (limousine) del giovane eroe, malatissimo e zoppo e sorridente, che nell’armatura scintillante giunge per raccattare da casa la donzella sventurata e portarla in missione-vacanza. In missione, sì, disperata e disperante alla ricerca di risposte, per un futuro che non ha e che nemmeno il suo libro-bibbia le fornisce, e allora arriva Willem DaFoe, Peter Van Houten – Lo Scrittore, e si ha l’impressione di subire un balzo avanti anni luce in un film che non esiste, in un altro film: ci sbrindelliamo contro la realtà di un momento (forse l’unico) effettivamente funzionante, con la caduta delle promesse e delle peregrinazioni chimeriche di Haze, dove l’idolo, il suo, si rivela spettro della sua opera, la sua versione raggrinzita, cinica e molesta, e insieme, con un colpo di battute, allenta il freno a mano della regia e ci sveglia (letteralmente) dal torpore generale – salvo ricadere, poche (pagine?) inquadrature più avanti nello standard precedente. Le lacrime, poi, arrivano tutte, come da previsione, furbamente, in quest’opera pigra e reticente, ripiena di ogni ingrediente fondamentale che bene si addice al suo genere (due anni fa Ol Parker con “Now Is Good”, ma ancora addietro, persino uno come Gus Van Sant un poco c’era caduto, a girare “Restless”, nella sindrome del sentimentalismo acuto): malattia, amore, dolore, pace, happy ending (si muore, ma si risorge, per via dell’amore eterno).

Tutta questa scatola filmica non funziona (e, paradossalmente, funziona bene, anzi benissimo): il testo iniziale diventa fotoromanzo, si appiattisce (nella migliore tradizione dei teen-drama) per diventare fruibile, e piace, piace tantissimo, agl’adoratori originali dell’opera scritta, ai romantici, ai sensibili all’argomento, ai ragazzini (alle ragazzine?), al frequentatore medio e domenicale del multisala, a quello che piange e, quindi è subito “capolavor-one”, all’80% dei “passavo per caso” al cinematografo e mi sono innamorato – tutte classi auguratamente non cinefile. Piace, e non tanto perché sia un prodotto di maniera, gradevolmente imballato, ma per quei soliti, stigmatizzati elementi che si dosano quando si pensa a un film per le masse (educate o non educate al Cinema), senza pretese autorali alcune: i buoni sentimenti. I buoni sentimenti vincono sempre. Per quel che riguarda noi, ben consapevoli che, come diceva Fincher, esistono due modi di fare film – quello alla Kubrick, dove il pubblico guarda con un certo distacco, e quello alla Spielberg, coinvolgendolo emotivamente – vogliamo, e preferiamo, sognare, ma almeno sognare bene.

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