LA FUGA DI MARTHA di Sean Durkin

REGIA: Sean Durkin
SCENEGGIATURA: Sean Durkin
CAST: Elizabeth Olsen, John Hawkes, Sarah Paulson, Hugh Dancy
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2011
USCITA: 25 maggio 2012
TITOLO ORIGINALE: Martha Marcy May Marlene

4 VOLTE M

Batte sentieri impervi l’opera prima di Sean Durkin, viottoli cinematografici contraddistinti da trappole nascoste alle quali è quasi impossibile sottrarsi, nonostante la buona volontà. E il talento. Ultima next big thing in ordine di tempo a presentarsi con il tagliando di made in Sundance, Martha Marcy May Marlene è un film che fa del suo fascino elementare l’elemento maggiormente forviante: la dimostrazione pratica di una promessa precocemente già etichettata come fuoriclasse. Il primo Durkin è patrimonio sfuggente, invitante e al tempo stesso incompiuto, in quanto saturo di ogni caratteristica propria di certe pellicole festivaliere: pregi molti, difetti altrettanti. Se non di più. La fuga di Martha s’impossessa di quasi tutto l’alternative statunitense che conta(va?): una protagonista che sembra arrivare dritta dall’esordio di Sofia Coppola, una macchina da presa che la guarda fuggire di spalle alla maniera di Aronofsky, una cabina telefonica qualunque in un esterno giorno qualsiasi stile Van Sant: da qualche parte, poco lontano da New York. E poi (tanto) altro. Luoghi prevalentemente, indizi architettonici, spazi e nascondigli. Martha Marcy May Marlene trova la sua collocazione in due ambienti: una fattoria dall’aspetto finto redneck, degno regno di una piccola Manson family riveduta e corretta, sogno distorto dell’utopia hippie; alla quale fa da controaltare la borghese villa sul lago, dimora di weekend e ferie estive simil Funny Games. Durkin gioca con e fra questi due riferimenti, alternando di montaggio passato e presente. La macchina da presa? Non  pervenuta, timbra timidamente il cartellino mano nella mano con la fotografia naturale, limitandosi ad osservare l’interno mente e l’esterno vita di una prigioniera, che cerca nell’acqua, e nel sonno, la sua illusoria via di fuga. Ne consegue che il peso dell’operazione tutta gravi sulle spalle di Elizabeth Olsen, vittima di scelte sbagliate, giovane donna senza nessuno caduta nella tela dell’ammaliante Patrick. Altro in fondo non c’è, in un film che fa della paranoia la sua reale protagonista, tra non rimossi e traumi che riaffiorano o si realizzano, alternati dalla scansione temporale delle immagini, che molto, probabilmente troppo, concedono alla capacità di deduzione di chi guarda; invero il più delle volte perplesso di fronte a tanta essenzialità di raccordo. Durkin si palesa senza dubbio come sensibile, elegantemente sporco, naif e bohémien nel trattare l’obbiettivo, eppure lascia che il film proceda da solo, quasi per inerzia, senza mai concedere un’accelerazione che non sia farina nel sacco della Olsen, la quale disturbata si desta, cercando di ammazzare in qualche modo la giornata, per poi, tormentata, riassopirsi. Appena accennati restano tanto il background familiare quanto l’avviato, ma non approfondito, scontro ideologico con il cognato Ted. Occasione in parte persa, seconda per approssimazione solo ad una chiosa conclusiva che molto vorrebbe dire ma che concretamente poco comunica. Buttata lì com’è. Di grazia registica maggiormente marcati invece, i segni mentali lasciati dalla permanenza nella comune: abbastanza insomma, per iniziare a parlare di promessa, ma di certo non di rivelazione; non fosse altro per quel tocco visivo giustamente lodato che purtroppo poco ha a che vedere con una propensione alla scrittura ad oggi ancora in fase embrionale, difficilmente accettabile come sufficiente se intenta a sostenersi esclusivamente sul gioco di nomi, e identità, trasmessa dal titolo originale. Strano destino quello toccato in sorte a Martha Marcy May Marlene: osannato figlio del Sundance, guarda caso l’identica “fabbrica” del poco o nulla considerato Bellflower.

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