in sala

Tutto fumo e niente Kaiju: GODZILLA di Gareth Edwards

godzilla

REGIA: Gareth Edwards
SCENEGGIATURA: Max Borenstein
CAST: Aaron Taylor-Johnson, Elizabeth Olsen, Bryan Cranston
ANNO:  2014

Diciamoci la verità, io non sono una fan di Gareth Edwards e non ho visto il suo osannato Monsters (più per distrazione che per scelta), ma sono una fan dei kaijū in genere e di Gojira in particolare. Per questo semplice motivo non mi lascio certo sfuggire l’occasione, quando si presenta, di andare a vedere – nella dimensione che meglio gli si confà – il mastodontico rettile dimenarsi sul grande schermo. D’accordo, anche vedendoli in tv o su un risicatissimo laptop, i kaijū rubano la scena perché la saturano, ma il loro habitat naturale è la sala, anche per questioni di coerenza di proporzioni tra l’occhio di chi guarda e il corpo di chi è osservato. La scala dei piani, a un certo punto, mostra i suoi limiti e non riesce a sostenere quella sospensione di incredulità che ci è dovuta, soprattutto se l’argomento trattato è parecchio lontano dalla realtà e avvertiamo più che mai la necessità di “vedere per credere”. Non è un caso se la fantascienza ha bisogno di respirare sullo schermo, il campo tende a inglobare ben più che le piccole realtà quotidiane, rivelando in grandezza e in profondità le insondate dimensioni dell’esistenza. Tutto è possibile fuori dalla nostra misera portata e il cinema può fungere da macroscopio per rivelarci gli aspetti estensivi dell’universo.
Quando si tratta di portare in scena storie fantascientifiche che trattano di virus o epidemie di sorta, il tracciato narrativo si sposta – per forza di cose – dall’oggetto di osservazione ai soggetti umani. E’ in essi che noi (spesso attraverso il contagio) facciamo una stima dell’entità, ne valutiamo la forza, la minaccia, il danno. In quel caso il personaggio umano, ossia il soggetto che si trova a combattere l’invasore, mostra attraverso il suo cambiamento fisico e/o psichico gli effetti dell’attacco e, per queste ragioni, è strettamente necessario che la linea di demarcazione tra il prima e il dopo, tra la “normalità” e l’alterità sia ben visibile. Il cinema poi tende anche a drammatizzare l’evento, qualche volta in maniera un po’ troppo ridondante, ma questo è un altro discorso…

Diversa è la natura dell’invasione di creature, come dire, ben più indiscrete. E’ il caso dei kaijū che, con la loro preponderante fisicità, hanno un ruolo ben più definito. L’umano, anche in questo caso, si trova a subire l’evento, ma diversamente dalla fantascienza apocalittica che si occupa di virus o entità di piccole dimensioni, qui la minaccia si esprime da sé divenendo protagonista autonoma. Il ruolo dell’uomo, automaticamente, viene ridimensionato (in tutti i sensi) e il punto di vista viene ripartito in modo equilibrato tra l’azione dell’invasore e la reazione dell’invaso. In questo modo l’essere umano paga anche lo scotto della sua colpa, viene privato del suo ruolo egemonico tra le specie e reso debole e incapace di opporsi (e di esistere), perché ricordiamoci che i kaijū sono soprattutto il frutto dell’ambizione dell’uomo e della sua, spesso deleteria, visione antropocentrica. Per fare tutto ciò un buon film sui kaijū deve far vedere i kaijū. Sembra scontato, eppure la storia del cinema ci insegna che, pur con le avanzate e avanzanti possibilità tecnologiche, l’essere umano, con i suoi drammi e il suo coraggio, resta al centro della scena, anche quando lo sfondo è il derma squamoso di un rettile di 100 mila tonnellate. Si tratta di una scelta – in parte condivisibile – di intrattenimento, ed è quella che fa Gareth Edwards (come anche altri prima di lui) con il recente Godzilla.

Trascuriamo la storia che, a grandi linee, è la stessa da sessant’anni e prendiamo per buona la scelta fatta di Edwards, ossia quella di fare un film in cui i kaijū sono solo l’ingombrante pretesto per parlare di ben altri conflitti (quelli familiari, quelli morali e quelli esistenziali) e focalizziamo la nostra attenzione sui soggetti, in quest’ottica, davvero protagonisti: gli umani. D’accordo, gli attori scelti sono molto convincenti, volti noti e ottimi interpreti, capaci di prestare volto e corpo ai dilemmi dei personaggi raccontati nel film, ma a che serve se a mancare sono i proprio i personaggi? E’ un bel problema per un film che si occupa di uomini e di relazioni tra uomini. I soggetti umani sono appena tratteggiati, poco approfonditi, e le dinamiche di relazione sono prive di emotività, date per scontate. Il risultato è una cronologia di rapporti statici e stereotipati. Per lo spettatore è quasi impossibile identificarsi con quelle figure stilizzate e trovare interesse per le vicende che riguardano loro. Il risultato è che, al netto della presenza dei mostri giganti, il film è di una noia mortale.

Poi ci sono quelli che “Eh ma è un film sui kaijū, i personaggi sono secondari”. Se si percepisce in quest’ottica, il film ne esce ancora più pietosamente. Intanto perché, appunto, Godzilla & Company appaiono per circa 30 minuti (a starci larghi) su un film di 123 minuti, un po’ pochino per un film in cui i kaijū dovrebbero essere i veri protagonisti, e in seconda battuta il registro utilizzato sembra andare a vantaggio di una narrazione intimista, modellata sulla tensione (umana) e non sulla deflagrazione (mostruosa). Le sequenze di distruzione sono pochissime e tutte costruite ad hoc per la messa in scena della grande fuga umana. La suspense, inoltre, non è una marca una tantum, usata per segnare l’entrata in scena di Godzilla e presentarlo adeguatamente al suo pubblico diegetico e di sala, ma diviene ben presto una fastidiosa strategia narrativa per evitare di mostrare l’inevitabile – grazie anche a un fastidiosissimo e darabontiano fumo offuscante – e per intrattenersi, ancora e ancora, a parlare di chi sono le colpe, di come si può rimediare, di cosa si prova, in tutte le variazioni del caso: emotive, morali, politiche e sociali. Nel frattempo, mentre si assiste al dibattito umano in 3D, appare prima uno scheletro, poi una pinna, una zampa, qualche secondo in campo lungo in compagnia dei kaijū, giusto per mantenere quello che è solo un “clima” e non un cataclisma, fino all’agognato finale in cui, finalmente, ci viene offerto un assaggio di quello che sarebbe potuto essere è che invece non è stato. Avanti il prossimo!

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