DAVID FINCHER pt. 2 – Le regole del gioco

LE REGOLE DEL GIOCO

I meccanismi della finzione nel cinema di David Fincher

Quando la città senza nome con i suoi abitanti senza volto è una terra di nessuno, metafora di un sistema malsano e corrotto dal potere, e la casa diventa il peggior rifugio dentro il quale illudersi di seppellire tutte le ansie della metropoli si deve essere pronti a lottare per cambiare il mondo, anche se ogni tentativo risulterà vano. Nell’universo crudele e macabro di David Fincher l’umanità esce sconfitta e i personaggi sono avvolti dalla notte alla disperata ricerca di un’alba. L’opera di questo regista, attraversata da un pessimismo quasi cosmico, riflette una condizione umana votata al martirio e al sacrificio. Basti pensare alle pene inflitte ai cadaveri barbaramente eliminati da un folle ispirato dai sette peccati capitali o alle numerose prove imposte dal cupo alto borghese per uscire dal suo incubo a occhi aperti o ancora alle ripetute sfide di resistenza di una madre per salvare la figlia. “Lunga ed impervia è la strada che dall’inferno si snoda verso la luce” scrive John Milton nel suo Paradiso Perduto del 1667. In questa incessante esposizione a torture fisiche e psicologiche ai danni delle figure sullo schermo, il regista di Denver stabilisce un contatto diretto con lo spettatore. Incontrando il suo sguardo con opere di intrattenimento, questi esprime un percorso autoriale in continua evoluzione ma è  solo facendo un buco nel cielo di carta di pirandelliana memoria che lo spettatore potrà dirsi veramente partecipe. Se7en (1995) The Game (1997) e Panic Room (2002) rappresentano tre tasselli differenti per un cinema di spazi, ambienti claustrofobici, labirintici sentieri della mente e diabolici giochi.


«Dove andiamo? Lontano da qui»

(Un tassista a William Somerset)

Se7en è un thriller dalle venature noir. Attraverso l’insolita struttura da detection già presenta tutte le regole del gioco fincheriano. Andrew Kevin Walker firma una copione a due facce, capace di trascinare il pubblico all’interno di un meccanismo perverso per poi smarrirlo con un durissimo contraccolpo emozionale, verso un tenebroso altrove. Si pensi all’uso che si fa della morte in fuoricampo. Il serial killer John Doe punisce i peccatori di una società infetta e squilibrata, ma allo spettatore è offerta solo la messa in scena, proprio come in un film. Non riuscendo a identificarsi con le vittime (delle quali focalizza soltanto i corpi brutalmente massacrati) chi guarda si fida subito di David Mills. Il detective appena sbarcato su questo lido infernale di vicoli e lingue d’asfalto insieme alla bella moglie in attesa di un bambino diventa il fulcro dell’azione. Il saggio e disilluso William Somerset non ha dubbi “ questa storia non avrà un lieto fine”. Quando tutti i tasselli sembrano combaciare, infatti, con l’assegnazione di ruoli ben definiti (l’assassino finalmente scovato e gli agenti pronti a inchiodarlo) interviene l’effetto sorpresa. Nell’inaspettato finale il giovane zelante Mills, preda dell’Ira e manipolato dall’astuto burattinaio uccide Doe passando improvvisamente da vittima a carnefice. Con Se7en Hollywood conosce un nuovo sentiero per scrivere il genere, lastricato di antieroi, pioggia, fango e cavalieri solitari mal disposti a scendere a compromessi: nasce così la parabola di un autore.


«Cosa hai visto in realtà da quanto hai cominciato? Solo effetti speciali come in un film»

(Christine)

The Game. Con un titolo del genere le intenzioni del regista appaiono chiare. Il ricco Nicholas Van Orton riceve in dono dal fratello per il suo compleanno la possibilità di fare parte di qualcosa d’insolito e straordinario, del resto “cosa regalare a un uomo che ha tutto?“. Questi diventa dunque ostaggio di un gioco di ruoli (quale può essere appunto il cinema con tanto di regia, interpreti e comparse) allegoria di un’espiazione da pagare a caro prezzo. Ancora un centro urbano, stavolta decodificato (San Francisco) si rivela un non luogo di spettri, un teatro di ombre, un campo minato di durissimi ostacoli da superare. Il protagonista è stato visto come un novello Ebenezer Scrooge mentre nel suo abito firmato si perde nel labile confine tra caos e ordine. L’immedesimazione con il personaggio sullo schermo è obbligatoria per lo spettatore alla ricerca di tutte le tessere dell’intricato puzzle. Sarà ancora una volta Van Orton a scuoterlo dalla magia di un inganno concepito dalla sceneggiatura di John D. Brancato e Michael Ferris esclamando “voglio alzare il sipario, voglio vedere chi è il mago”. Per ottenere la redenzione non è sufficiente uscire di senno o sanguinare;  talvolta si può anche decidere di farla finita e solo allora tirare il sipario. Un sipario dietro il quale si nascondono attori e maschere ciascuno calato in una parte, degna rappresentazione dell’illusione di un’esistenza. The Game tra i lavori più bistrattati dalla critica sviscera temi incastonati in una poetica coerente che fanno ancora la fortuna di grande e piccolo schermo.


«Hai mai letto Poe? No, ma adoro il suo ultimo album»

(Meg Altman e Lydia Lynch)

La parentesi Panic Room segna un momento particolare nella carriera del regista. Considerato quale mero esercizio di stile, Fincher firma un’opera da contestualizzare. Gli Stati Uniti sono ancora sotto shock per l’attentato alle Torri Gemelle. Il Paese è in stato di allarme generale, con addosso per la prima volta nella storia il terrore di subire da un momento all’altro una nuova invasione. La paranoia regna sovrana, si diffonde tra le strade e attecchisce anche nelle case, solo qualche tempo prima alcove inviolabili. Lo script di David Koepp racconta di un’incursione nell’intimità famigliare allo scopo di mettere le mani su un malloppo nascosto. La casa diviene il set ideale per far muovere le pedine da un ambiente all’altro monitorandone gli spostamenti. La pellicola ha un unico piano narrativo davvero interessante: gli aggressori vogliono entrare nel bunker super attrezzato e le protagoniste Meg e Sarah devono impedirlo. Ancora una volta lo spettatore è in anticipo sui personaggi e mentre la suspense cresce, il suo sguardo è rivolto alle sepolte vive nel fortino d’acciaio ma anche ai malviventi che le attendono fuori. La regia regala alcuni momenti di alta tensione guardando ad Alfred Hitchock e cimentandosi in sperimentalismi acrobatici grazie alle tecniche digitali. Alcune trovate sono efficaci, smorzate da un umorismo a tratti eccessivo, ma il film non può considerarsi riuscito a causa di una deriva melodrammatica alquanto improbabile. Panic Room segna il punto di non ritorno di un autore proiettato verso il futuro ma con l’occhio sempre rivolto alla lezione dei grandi maestri del passato. 

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