VENEZIA 2011 – Giorno 10: senza principi e senza fine

Siamo riusciti a vedere tutti i film del Selezione Ufficiale tranne uno, Ides of March di George Clooney, il film d’apertura. Ed insieme scritto quotidianamente, bene/male/merda non importa (anche perchè: trovala la differenza). Siamo riusciti a(d avere la convinzione di) non perdere altri pezzi grossi, sedicenti filmissimi: nessun miracolato sbraitante d’aver visto il miglior film della storia del Cinema in un seminterrato di una villetta adiacente al Palazzo del Cinema, e che non verrà mai più riproiettato perchè (cit. Lav Diaz) «Io i film non li faccio per il tuo festival, li faccio per il Cinema».

E l’anestesia sta svanendo lentamente, ed è troppo tardi per cercare impossibili dosi aggiuntive: tra ieri e oggi solo due visioni, conclusive, definitive, deludenti ma non troppo, ancora atrofizzati da quanto è venuto prima. Ed è spiacevole, perchè chi sarebbe in grado di dire qualcosa di buono su Life without principle di Johnnie To non è qui, così come invece non esiste colui/colei che potrebbe fare lo stesso conTexas killing fields di Ami Canaan Mann. Entrabi, scorrono, come da salotto. Non c’è impeto, non sembra di assistere ad uno tsunami largo venti metri: To perchè anche questa volta agisce come un semplice registratore di avvenimenti, ma col suo occhio moderno quasi cibernetico (e senza colpi di pistola, questa volta) che lo fa fluire svelto, fino alla fine (chè quasi sembra arrivare troppo presto); la Mann per l’opposto, vetusto affaccendarsi attorno al nulla all’americana. In Texas killing fields non c’è una singola battuta che non si sia già sentita, al cinema o in televisione, e la sua regista non riesce ad elevare tutto questo (chiamiamolo) classicismo eccessivo nè verso una “CSItà” pacchiana nè verso una scossa, un’atmosfera (come se il padre non le avesse insegnato niente), un nuovo; rimanendo lei solo un nome nei main credits. C’è ancora/mai stato bisogno di far sentire i toni dei numeri composti con le tastiere mentre si richiama qualcuno col cellulare? C’è ancora bisogno di far fumare solo la vecchia zoccola fallita che caccia la figlia di casa ogni volta che deve scopare? C’è ancora bisogno di avere poliziotti ex fidanzati tra loro? E, anche se fosse, ok: ma c’è bisogno di registi/e, non delle figlie di papà digitale.

Che ci fanno entrambi in Concorso, soprattutto il secondo? Brooklyn finest di Antoine Fuqua aveva una forza e una brutalità che Texas killing fields non si concede nemmeno quando le è servita/urlata dalla sceneggiatura, ma non era in Concorso. Muller probabilmente s’è scatenato, a mandato fanculo tutti, per il suo probabile addio: ha ficcato in concorso tutto quello che gli pareva, tutti i Cinema (dal salottesco, come questo, all’autorialità fallace di Garrel) che desiderava, tutti i deliri psicomotori che l’han fatto esaltare. Punto. King of the hill, of the world. Destabilizzandoci, vasodilatatore e poi costrittore, disorientando qualsiasi tendenza al raggruppare e categorizzare i film, ed il Festival stesso. Se nel 2006 titolavamo riguardo una Venezia63 nera-nerissima, quest’anno la Mostra tutta non riesce a farsi mettere un’etichetta addosso, perchè nessun Cinema vince, nessun Cinema perde, quasi nessun Cinema compete, proprio mentre a capo della giuria c’è uno dei più grandi registi esistenti.

E, come sempre, in Aronofsky we trust.

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