in sala

A cool girl and a bad guy: L’AMORE BUGIARDO – GONE GIRL di David Fincher

gone girl (3)

REGIA: David Fincher
SCENEGGIATURA: Gillian Flynn
CAST: Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2014

Il miracolo di un intrecciarsi di archetipi narrativi, di umani che sono prototipi nella e della esistenza, che si ritrovano mediocri nel format del matrimonio alto borghese, formula bugiarda, amanti in una vita che è fiction straordinariamente atavica, disperata, profondamente antropica: cool girls and bad guys, Gone Girl. Il volto di Amy, angelo efebico del focolare e fisiognomica di una musa, nel proemio si spiega sul mondo-schermo come una visione narcotica e crudele, di occhi sfreccianti e cavernosi in un cranio nel quale si vorrebbe scavare, archeologica speranza di ritrovare resti di passioni e pensieri primordiali e innocenti dei quali la terra ha perso genetica traccia. Nello sfrecciare mediatico della sovraesposizione corporale, critica sfacciata allo psicolabile universo mass-mediatico, questo Fincher viscerale è un killer che imbocca un percorso feroce di svelamento della psiche del mondo-tutto e del costrutto sociale che vi si è costruito, anti-psicologico, drastico, senza riserve, compassionevole tuttavia, se si decide di guardare.  Fincher si osserva, innanzitutto, si scruta con il piacere sommesso e inconfessabile di un voyeur privo di zoom, e che allora si sposta nel quadro del suo oggetto feticcio per fondersi in esso, per carpirlo e per stagnare al suo interno, spalmandosi del materiale stesso del filmico, assimilando, ingurgitando, sfamandosi e dissetandosi come al termine di un tunnel interrotto, eppure anche perdendosi tra le sue numerose nascoste diramazioni, con il privilegio di essere accompagnati in un trabocco estesissimo di rimembranze thriller e drammi odierni che non stupiscono mai, adornati del ghigno amaro e beota del reale. Gone Girl è il piacere di abbandonarsi alla narrazione a incastro totale, nell’essere limitatamente sorpresi dallo spiegamento degli eventi- chè Fincher non vuole shockare, permane sul filo di un rasoio appoggiato alla carne, sul principio dello strapiombo, con la percezione chiara che niente è turbante, rischioso, letale: Fincher ci ricorda che è solo un gioco. Il dissolvimento dell’atto empatico di ritrovarsi simili e conformanti ai protagonisti, il compiaciuto accorgersi della voce off di Amy e del suo verissimo diario grillo parlante di noi stessi, del film - lasciate ogni speranza voi che entrate –, che è autoriflessivo, (quasi) meta-narrativo, compendiario di un genere cinematografico che è qui canonico eppure sfuggevole a ogni cardine dello stesso, guida illustrata alla direzione progettuale di un’opera, maestranza in ascolto di un poema liricamente assoluto neanche ego maniacale: da solo sfoggio dell’umile se stesso. Fincher imbarazza perché è paradossale in ogni scelta registica, un doppio contrastante e incontrastato nel suo fingere di prenderci in giro (chi è il buono, chi è il cattivo?), nel fingere di dire verità e scempio dei personaggi, nel fingere ancora di fare genere, nello scemare nella commedia ovunque, di rigurgitarci addosso il mentire (?) di due amanti che programmaticamente annunciano l’uno di non voler essere sottomesso marito segretamente traditore scivoloso, l’altra stronza monumentale manipolatrice, salvo esporre con vergognosa precisione l’essenza stessa dei loro caratteri, e il concludersi parodico della struttura intera. Dice già tutto, espone chiaro fin dal principio, nel sottotesto, negli sguardi avvelenati, nell’inconfondibile freddo cosmico respirabile nei suoi piani. Amy è vendicatrice, donna ammaliante, Medea anglofona, eppure candida e lunare nel registro linguistico fotografico; Ben è elementare, vagamente conformato di brillante intelletto, eppure è sciatto, sudato, buzzurro nell’iconografia; analiticamente il film parla e parla con gli strumenti intimi del mezzo. Ma Fincher è soprattutto orgasmo visivo del cinema movimento: ingannevole e doppio anche nei piani scorbuticamente statici e dal quadro compositivo estremamente ragionato, saturi, invece, di un muoversi inesauribile; non esiste, letteralmente, inquadratura ferma nel diegetico, perché ogni elemento si sposta (mai troppo impercettibilmente), svolta, si curva, e se non lo fa, il movimento è di macchina, mai completo, sempre interrotto e prolungato nel piano successivo, in segmenti spezzati e a ritmo tirato, come danza corale del montaggio cerebrale parto di un isterismo maniacalmente votato al rigore. L’impressione della stasi e l’immersione del flusso cinetico in una macchina filmica auto – celebrativa di cui plaudire ogni segno, impronta, discorso: questo è Fincher che si ripiega in se stesso, seducendo e stregandosi dello splendore della figurazione fotografica, della sceneggiatura tossica e torrenziale e fisiologicamente limpida e fluente, Fincher perfetto come un mestierante e acutissimo e specifico come un autore, Fincher è la sintesi. A dimostrazione, i climax sapientemente regolati e dispersi nell’insieme, con le tipiche acide e vertiginose dissolvenze in chiusura disseminate ovunque nel procedere filmico, e gli esterni spudoratamente suoi, tipici come Gone Girl è tipico film fincheriano, summa di una (anti-) poetica furba e sfacciatamente americana, e del suo formalismo spietato che lo rende feticcio di pochi e di tanti. Nel volgere all’estetico si dota di aperture sadiche, nette; nella sequenza fulcro dello svelamento della sua intima (vera?) natura Amy si spiega e si libra nel suo essere super-eroina, donna incazzata di un microcosmo matriarcale colmo di ladies plasmanti e virili (Amy, la sorella, l’amante, la poliziotta, le intervistatrici) focus di una narrazione scevra di giudizio, asettica, getto avvenente e omogeneo, clandestino occhio misericordioso sull’inevitabile cinica decadenza relazionale umana: “Cosa abbiamo fatto a noi stessi? Cosa faremo adesso?”. Riguardare Fincher, in sala.

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