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The eternal sunshine of the spotless software: HER di Spike Jonze

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REGIA: Spike Jonze
SCENEGGIATURA: Spike Jonze
CAST: Joaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Mara, Scarlett Johansson
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

L’esistenza dell’individuo 2.0 non è poi così dissimile dalla condizione in cui versava il suo predecessore ante duemila: laddove l’uomo secondo Spike Jonze già si muoveva all’interno di location atemporali e metageometriche, sublimate fin dai tempi di Essere John Malkovich (datato 1999). E’ lampante come in Her persista un legame di profonda e filmografica parentela, che poeticamente aggrega Theodore Twonmbly ai ritratti umani innanzi tratteggiati dal cineasta di Rockville, peculiarità quest’ultima, che configura Joaquin Phoenix come rivisitazione “operaia” e non più gemellare del Nicolas Cage de Il ladro di orchidee. Ciò consente ad Her di farsi apprezzare come la pellicola maggiormente personale fin qui realizzata da Jonze, opera attraverso la quale dimostrare quanto ben assimilata sia la lezione impartitagli da Charlie Kaufman; ora aggiornata in una futuribile proiezione di mondo touch e wifi, comunque caratterizzata da temi cari al suo autore: quali solitudine, smarrimento, perdita di identità, costante ricerca del sentirsi parte della vita altrui. 

Her sviluppa con efficacia e slancio autoriale il congegno progettato da un altro protetto di Kaufman: il Michel Gondry di The Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Lì dove l’avanguardia dell’ultimo ritrovato della tecnica veniva utilizzata per rimuovere il ricordo di una storia -cancellandola dalla mente di chi l’aveva vissuta-  viene qui rielaborata in quanto software sorprendentemente umano alla percezione dell’output, intelligenza artificiale della quale è possibile persino innamorarsi. L’eredità di Kaufman ci riconsegna un Jonze si indipendente nella scrittura, ma altrettanto alienato nel tratteggio degli interpreti, comunque assorto in un cinema ancora una volta celebrale, pregno di sensazioni e sofferenze, dall’animo appassionato e doloroso. Her è fantascienza romantica, condensato di emozioni umane contestualizzate in un futuro lindo e high tech, sorta di Synecdoche, “nowhere” vulnerabile, popolato da umani abbandonati, che riflettono le proprie debolezze e i propri fallimenti sentimentali nello specchio di una tecnologia amica prima e catartica poi, ma mai, come tradizione di letteratura vorrebbe, “nemica”. Una rappresentazione, quella allestita da Jonze, capace di instaurare con lo spettatore un feedback empatico che non si avvertiva così prepotente, e viscerale, da Non lasciarmi di Mark Romanek.

Storicamente, ogni personaggio immortalato da Spike Jonze possiede un dono che è al tempo stesso una condanna. In Her è Joaquin Phoenix ad addossarsene il fardello e replicarne lo schema: Theodore (da Teodoro, letteralmente dono divino) scrive d’affetti per conto di terzi. Il talentuoso ghost writer di sentimenti altrui, dalla quotidianità infranta e solitaria, è l’espediente narrativo ideato dal cineasta per giustificare il significante della pellicola tutta; a partire dal cognome del suo protagonista, Twombly: omaggio poi non così nascosto nei confronti di Cy Twombly (alias Edwin Parker jr.), artista reso riconoscibile nella sua unicità per merito dell’innovativa capacità di sfocare la linea tra disegno e pittura, le cui scelte cromatiche devono aver ispirato, e non poco, tanto Jonze quanto il direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema in sede di scelta di colori e luci.

L’immagine si fa sfocata, controluce e ai limiti della trasparenza: base visiva e metafora ottica finalizzata a caratterizzare l’estetica di un film privato a tavolino di una collocazione cinematografica precisa, concreta e limitante; opera simbiotica che sincronicamente lega racconto, regia, costumi e musica; gli uni concepiti per essere funzionali alla circolarità degli altri in uno scorrere fluido e credibile di emozioni vere alternate a trovate hipster, siano esse abbigliamento che prevede pantaloni a vita (troppo) alta o accompagnamento sonoro di matrice Arcade Fire: moda-anti-moda si, ma ostentata attraverso una procedura di messa in scena incapace di far storcere il naso. Anche quando ci sarebbero tutte le condizioni per farlo.

Incantevole come la sua regia senza peso, sull’alternarsi di primi piani e panoramiche spaziali Her brevetta quella che si potrebbe (osare) definire come una nuova concezione del fuoricampo e lo fa attraverso l’utilizzo percettivo dell’infatuazione maschile, sedotta ed eccitata dalla voce di Scarlett Johansson (autoproclamatasi Samantha, etimologicamente fanciulla sacra), che poco a poco conquista mente e cuore dell’utente. Il quale ricambia spontaneo, rinunciando senza esitazione alcuna ad un corpo fisico (e ai suoi surrogati) pur di sentirsi amato e compreso, pur di riuscire, quindi, a dimenticare attraverso la convivenza uomo-sistema operativo il ricordo invasivo del primo e ultimo “vero” amore in carne e ossa.

Allegorico e filosofico (con tanto di citazione AI modellata sul britannico Alan Watts), Her si nutre di un futurismo wireless provocatorio e paradossale, dal sospetto retrogusto vintage: parla tramite chat, comunica tramite email ma sembra ignorare l’esistenza stessa dei social network. Tanto che del penultimo Fincher rigetta persino l’amaro finale, comunicando si malinconia d’epilogo, ma accompagnata da una coinvolgente sensazione di pace. All’orizzonte della quale sembra possibile intravedere una prossima cicatrizzazione di vecchie e nuove ferite. Il primo passo verso una ritrovata felicità.

D’altronde, anche in questo caso ritorna la necessità di fare i conti con il ricordo e la perdita di una Rooney Mara. Proprio lì, in coda. Dove una volta regnava rabbia repressa, rassegnazione e realizzato fallimento.

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