IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON di David Fincher

REGIA: David Fincher
SCENEGGIATURA: Eric Roth
CAST: Brad Pitt, Cate Blanchett, Tilda Swinton
ANNO: 2008

«MI AMERAI ANCORA QUANDO LA MIA PELLE SARA’ VECCHIA E CADENTE?»
«E TU MI AMERAI ANCORA QUANDO AVRO’ L’ACNE?»

150 giorni di riprese per un totale di 260 settimane di lavorazione, 30 milioni di dollari in effetti speciali, due anni di post produzione e la pesantissima eredità di un progetto rispedito al mittente, con tanto di «no grazie», dalla celebrata coppia Spike Jonze-Charlie Kaufman. Se esiste un cineasta tanto incosciente da dare la sua disponibilità per un’avventura del genere, e non contento tirarne fuori ben 13 candidature all’Oscar, quello è senza dubbio David Fincher. Alla luce di questi presupposti non sarebbe corretto definire Il curioso caso di Benjamin Button unicamente come un’ultima fatica registica, in quanto questa imponente opera rappresenta la metafora stessa del modo di fare cinema di un autore con la A maiuscola che, anziché invecchiare e cadere nella fisiologica trappola della prevedibilità, ringiovanisce con il passare degli anni. Fincher lavora con e sul senso della durata emozionale della vicenda ispirata all’omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald, ultimando in poco meno di tre ore una romanzata agiografia in fotogrammi. Dalla calligrafia elegante e la sintassi leggera, Benjamin Button è l’ideale prolungamento della riflessione intorno al valore del tempo iniziata con Zodiac, capace di riuscire lì dove persino Un’altra giovinezza di Coppola aveva per certi versi fallito. Con la semplicità del cantastorie e la pulizia epica del Paul Auster di Mr. Vertigo e Moon Palace riscopertosi regista, Fincher decelera i rintocchi della pellicola per soffermarsi ancora una volta sui particolari in grado di fare la differenza, trasformando in pregio ciò che molti dei suoi colleghi vedrebbero esclusivamente come un difetto: le grucce prendono il posto della carrozzella, la lanugine si fa peluria, i capelli radi e brizzolati si tingono di biondo. Mentre l’orologio procede la sua corsa in senso antiorario, le lancette uniscono in un intreccio di venti dita l’incedere pachidermico della macchina da presa allo script di quell’Eric Roth di “gumpiana” memoria; all’interno di questo astuccio a quattro mani un piccolo uomo torna nuovamente a misurarsi con la grande storia, diventandone protagonista, anche se in disparte («se c’è stata una guerra noi non l’abbiamo vista»). Passato remoto, presente e ancora passato recente (la New Orleans del jazz e dello speak easy prima, quella in terrorizzata attesa di Katrina poi) risplendono sotto il chiarore crepitante di una fotografia color ambra, tenuti insieme dai battiti in controtempo del motion capture, che disegna rughe sulla perdita della verginità e insinua sintomi di demenza senile sotto la salopette di un corpo che sta per scoprirsi adolescente. Il curioso caso di Benjamin Button è un melodramma di tre atti capovolti, in perfetto contrappeso tra il perenne senso di morte e il registro dissacrante proprio dei suoi fulminanti squarci di comicità. Film di personaggi e aneddoti, madri adottive, padri pentiti e scapestrati maestri di vita, sul cui svolgersi aleggia “cupidica” l’origine illogica e la folle riluttanza di certi amori impossibili, tanto dolorosi quanto necessari all’esistenza di chi li vive e ostinatamente li coltiva.

Peccato che il prodigio venga compiuto solo in parte. Fincher, infatti, lascia cadere la penna appena un capitolo prima dal porre la sua firma sotto la parola capolavoro, liquidando con un finale sbrigativo quella che avrebbe dovuto essere la reale vertigine emotiva del racconto. Il cinico distacco e l’assoluta mancanza di rimpianto, per lunghi tratti meriti principali della pellicola, finiscono per soffocare il vero dramma del mortale ritorno alle origini. L’incantesimo si spezza assieme alla progressiva perdita di colpi di una regia stranamente interessata al reiterarsi di cartoline in stile Laguna Blu, e immotivati tentativi manieristici (l’incidente che mette fine alla carriera della Blanchett sembra uscito da Sliding Doors); spie d’allarme dalle quali non si salva nemmeno la sceneggiatura, che progressivamente lascia trapelare preoccupanti voragini di continuità e inspiegabili lacune di approfondimento, con volti che appaiono e scompaiano venendo, il più delle volte, appena abbozzati. Alla lunga il dosaggio delle tempistiche finisce per trarre in inganno Fincher, che non lascia a Daisy, e soprattutto allo spettatore, la possibilità di piangere quanto dovrebbe sull’abbraccio di un neonato rattrappito, questa volta dall’interno. Il curioso caso di Benjamin Button termina male, proprio come quei grandi amori che si spengono all’improvviso, senza prendersi la briga di spiegarti il perché. Resta però il ricordo, abbagliante, a tenere vivo nella mente quanto meraviglioso sia stato il durante e il prima.

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