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FAVOLACCE di Damiano e Fabio D’Innocenzo: Hai visto due piazze nella tua vita, il tuo letto

Regia: Damiano e Fabio D’Innocenzo
Sceneggiatura: Damiano e Fabio D’Innocenzo
Cast: Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi
Anno: 2020
Produzione: Italia, Svizzera

favolacce

Estetica salda sulla scia (ormai post) garroniana, realismo magico di borgata, caramella al veleno: un fiocco, un colore, un sapore amaro, gli occhi poi chiusi. I gemelli D’Innocenzo sanno impacchettare, arredare, dipingere e loro questo sembra importare; non i muri pericolanti sotto l’intonaco, non il marcire avvolto nella carta da zucchero (marcito sia per i fatti suoi che per la carta stessa), non l’inutilizzabilità di quel divano coordinato o di quel tavolo tanto bello da guardare, non il pluriball dentro la scatolina laminata.

Il loro, ecco, è un cinema prettamente estetico, hipster al midollo (per quanto suoni contradditorio in termini), un fare film distante e distanziante, con un canone della morale narrativa (che è tutt’altro, ovviamente, rispetto alla narrativa morale) compiaciutamente fermo al Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Non in quanto boutade morettiana (sempre (più) valida, di suo) ma come didascalia.

Il loro è un riarrangiare praticamente seriale di elementi ormai completamente prosciugati, un cinema a cui non si può dir niente perche Beh, bello è bello, ma che si sorregge unicamente su un canone visivo totalmente contemporaneo (e forse questo rimarrà: l’essere esercizio esemplare di questo cinema), senza il quale probabilmente non sarebbe nemmeno stato cogitato. Figlio di una visione generalizzata, Favolacce è quella foto su Instagram uguale a mille altre, ma davanti alla quale ci scappa il cuore perché Beh, bella è bella.

Ma, ecco il punto: proprio come per certi post, ad essere sull’altare sono proprio il post in sé e le reazioni che può suscitare. A contare cioè non sembrano essere il postare ma il post, non il reagire ma la reazione, il testo e non lo scrivere: un film fatto di oggetti e non di gesti, un film meccanico, esteriore, sicuro, tracciabile in tutto e per tutto come un pacco Amazon.

Se “l’effetto zoo” è ormai deriva inarrestabile di certo cinema d’alto bordo, è la riduzione a mere sommatorie di ciò di cui è fatto un film a risultare desolante, insincera (e nemmeno beffarda menzognera): Favolacce è – scuotendo un po’ le parole – mera affabulazione schematica in cui qualsiasi sarcasmo, malinconia, amore tossico è subordinato all’incasellare di cui sopra.

La fotografia radiosa, la canicola purgatoriale, la miseria, la silenziosa disperazione, lo spezzettarsi della narrazione, la ninna nanna funebre a cui tutto sottende: tutti gadget, strumenti, citazioni di una parvenza di malessere che, come detto, è quasi esclusivamente posa, aggeggio, utensile. Un cinema pavone che non ha il coraggio di dichiararsi per quello che è: mero cinema di genere inzuppato fradicio di velleità borghese.

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