KILLER JOE di William Friedkin

REGIA: William Friedkin
SCENEGGIATURA: Tracy Letts
CAST: Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Gina Gershon, Juno Temple
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2011

SENILITÀ DI UN AUTORE

Fango da pioggia, peli pubici, tette rifatte. Cosce di lividi e birra in lattina. La notte di Killer Joe è addirittura più squallida dei suoi interni giorno: tavola calda, officina, sala corse. L’ultimo Friedkin ha l’aspetto misero e poco invitante di un pasticcio al tonno, puzza di sporco, sudore vecchio e latte scaduto; una roulotte arrugginita, dove riecheggiano in loop rombi di monster car e film kung fu. Marcia la cornice, innocente e pura una delle creature che la abita. Dottie, bionda e ingenua, cerca di prendere sonno con accanto la sua palla di neve.

A William Friedkin occorre il minimo sindacale di inquadrature possibili per rivelare l’animo profondamente white trash della sua ultima fatica. Visto da qui il Texas ha davvero ben poco di mitico, ancora meno che valga la pena d’essere visto o, peggio ancora, vissuto. Abitato. Sporcare l’immaginario da cartolina della terra promessa, rivoltare il cuore della “vera” America come zolle di terra al sole in un torrido giorno d’estate è un vecchio trucco, da maneggiare con cura: in quanto arma a doppio taglio. Friedkin la impugna dimostrando una lentezza di riflessi che sorprende. Purtroppo in negativo. 

Killer Joe è quanto di più lontano si possa immaginare dal suo autore che, dopo il prodigio Bug, sceglie di giocare con il fuoco, scottandosi non poco nel tentativo di dirigere il suo Fargo guardando al primo Tarantino. Spacciato per cinico noir, l’ultimo Friedkin si (s)confessa black comedy assai di maniera, spersonalizzata quasi fosse pellicola su commissione: zona indefinita ed estranea in una filmografia mai così lontana e, a conti fatti, all’interno di quest’ultima priva di collocazione, dove echi dello Scorsese fanciullo  (la sequenza del pestaggio subito da Emile Hirsch, per dirne una) si agitano nel (vano) tentativo di riverberare la giovinezza perduta (forse) per sempre.

Killer Joe è un parto senile, di cui non si discute certo il valore tecnico o la perizia fotografica, bensì la leva remota che a monte aziona l’operazione tutta, appartenente all’immaginario, e quindi allo sguardo, di altri autori; che tutto sono tranne William Friedkin. Al termine della giostra operazione incapace di decollare, scontata nel suo meccanismo di “truffa-nella truffa” quanto l’assassino in un film di Dario Argento, comunque già vista nella pur minuziosa caratterizzazione di un cast d’assoluto rispetto e abnegazione, tra le pieghe grottesche del quale l’unica anima candida, tenta di rimanere disperatamente a galla, di non affogare, spinta giù dall’inetta corruzione morale che fin  dalla nascita la circonda.

Coen, Tarantino o Scorsese poco importa. Il punto non è tanto chi muove d’ispirazione Friedkin, quanto la freschezza dei modelli di riferimento, diretti all’epoca da cineasti in frizzante ascesa, sospinti in poppa dal vento giovanile. Ciò che, visto Killer Joe, manca terribilmente al Friedkin d’oggi, al suo senile cinema da camera, appena qualcosa in più rispetto a The Killer Inside Me, per un film tutto sommato di cui accontentarsi, reso a tratti insopportabile dalla variante sessuale, deviata e repressa, che trova il suo triste epilogo nella sequenza scult della fellatio alla coscia di pollo. Un passaggio di cui vergognarsi, nonostante porti la firma dello stesso regista di Jade, solo con qualche anno in più sulle spalle. A pensarci bene accadde anche ad un altro “dinosauro”: il Sidney Lumet di Onora il padre e la madre, con l’unica, ma sostanziale, differenza che lì c’era di che rifarsi gli occhi con Marisa Tomei.

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