AVATAR di James Cameron

AVATAR di James Cameron VS. IL MONDO DEI REPLICANTI di Jonathan Mostow

REGIA: James Cameron/Jonathan Mostow
CAST: Sam Worthington, Zoe Saldana/Bruce Willis, Radha Mitchell
SCENEGGIATURA: James Cameron/John Brancato, Michael Ferris
ANNO: 2009
NAZIONALITA’: USA 

JAMES CAMERON E JONATHAN MOSTOW: PROVE TECNICHE DI CONTINUITA’

Tante, troppe le analogie. Talmente numerose da rivelare un parto quasi gemellare. Similitudini cinefile lampanti, impossibili da lasciarsi sfuggire, perché capaci di legare a nodo doppio Avatar, annunciato caso cinematografico dell’anno, e The Surrogates: piccolo episodio di fantascienza, praticamente un fratello minore dall’aspetto ingannevole, comunque cresciuto inseguendo i medesimi parametri semiotici del parente maggiore. Cineasti formalmente discosti, accomunati all’improvviso da immagini e intuizioni distanti solo superficialmente. Icone di celluloide che passano di mano in poetica, assumendo forme nuove, ma non per questo incapaci di conservare, immutati, humus originario e slancio natale. Da una parte James Cameron e il suo kolossal in performance capture, summa di qualità e limiti a capo di una carriera in ogni caso unica e irripetibile: bomba ad orologeria con in bella vista il marchio blockbuster, pronta ad esplodere nei box office di tutto il globo. Dall’altra Il Mondo dei Replicanti, ennesimo tassello di un curriculum registico ad un passo dal trasformarsi in percorso autoriale, che proprio dal patrimonio lasciato in dote dal figlio illegittimo di Steven Spielberg e George Lucas sembra muovere ulteriori passi verso una più alta considerazione critica. Un gioco, quello relativo alle “sospette” affinità tra i due, che ha inizio con Terminator 3 – Le Macchine Ribelli, pellicola per merito della quale Jonathan Mostow raccoglie la pesantissima eredità lasciatagli da James Cameron nel 1991, creatore, autore e “replicante” stesso del precedente dittico iniziato nel 1984. Il progetto immediatamente successivo del regista di Breakdown – La Trappola prevede la trasposizione sul grande schermo della graphic novel The Surrogates di Robert Venditti, e per portarlo a termine si affida alla penna di John Brancato e Michael Ferris, squadra di sceneggiatori autrice dello script di Terminator Salvation, quarto e fin’ora ultimo capitolo della faida tra macchine e resistenza interpretato, come partner androide di Christian Bale, proprio da Sam Worthington, scelto a sua volta da James Cameron per indossare i panni del marine Jake Sully. Registi e non solo. Anche scrittori di storie e interpreti dell’immaginazione altrui. Avatar e The Surrogates: separati alla nascita, tutto torna.

REMOTE CONTROL, LA BATTAGLIA DI MOSTOW: “SUBSTITUTE ME FOR HIM/SUBSTITUTE MY COKE FOR GIN/SUBSTITUTE YOU FOR MY MOM/AT LEAST I’LL GET MY WASHING DONE”

Cameron e Mostow mettono in scena paralleli emisferi futuribili (ri)attualizzando il concetto di controllo remoto. Perno inamovibile del ragionamento l’AVATAR, nome in codice della nuova fantascienza dall’etimologia sanscrita di origine induista. Il Mondo dei Replicanti bypassa Robert Venditti sfruttandone a pieno la pessimistica accezione in stile second life: The Surrogates è un universo distopico, affollato com’è da copie pirata di un’umanità interpersonale gioiosamente rimossa, vittima consapevole dell’antinomia tra prigionia della sfera reale e la simulata libertà del mondo esterno. Il paradosso virtuale è condotto all’estrema conseguenza, dalla prigione domestica non si esce più, anzi, si fatica persino ad alzarsi dalla propria cella-dormitorio per permettere al proprio clone di ricaricarsi. Il semplice contatto con l’altro, che non sia ologramma programmato e guidato a distanza, è tacciato dal termine rischio. Mostow palesa un incubo alla luce del sole, inquietante proprio perché comunemente accettato e condiviso. Cameron, invece, si muove su binari equidistanti ma ideologicamente opposti. La sua non è una tecnologia moralmente violenta, bensì riconducibile al significato divino del termine che dà nome e vita all’ultima fatica dietro la macchina da presa (letteralmente “colui che discende”). L’umano inviato nell’entroterra del pianeta Pandora viene accolto nel nuovo mondo da una serie di segni celesti che ne giustificano l’intrusa presenza aliena: tanto che l’ingresso stesso nelle diffidenti grazie degli indigeni Na’vi non avrebbe motivo di esistere, se le armonizzate forze naturali non si prodigassero a motivarlo attraverso sospette coincidenze simboliche. Quello intrapreso da Jake Sully altro non è che un religioso cammino di purificazione, percorso di (nuova) vita caratterizzato da una serie di prove finalizzate a trasformarlo in una vera e propria guida popolare e spirituale. Dissimili nella rilettura dell’ispirazione originale, Mostow e Cameron lasciano trasparire l’ennesima affinità nel focalizzare il medesimo punto guida, affidando alla postazione tecnologica il ruolo di interruttore indispensabile per la riuscita delle loro creature. Avatar e The Surrogates funzionano se distesi sul lettino dei sogni, il miracolo, naturalmente, dura il tempo di una connessione: strappati i cavi il doppio si accascia al suolo come colto da infarto. Il design rimanda ad un futuro architettonico prossimo, ma le storie raccontate non possono non richiamare un recente passato futurista. Tanto l’avanguardistica base militare di Avatar quanto i moderni appartamenti de Il Mondo dei Replicanti non fanno altro che ingentilire quanto mostrato sulla sedia da dentista di Matrix o nel garage di Existenz; squallore all’ora analogico all’interno del quale i Wachowski “loggavano” le coscienze altrui, mentre Cronenberg violentava il sé interiore penetrando l’umano corpo con un cavo destinato a collegarsi alla protesi fittizia. Cameron e Mostow digitalizzano il procedimento arrivando ad annullare il concetto di dolore fisico, proiettando i propri interpreti in un mondo addirittura migliore di quello appena lasciato, dove è possibile riprodurne pregi e altrettanti difetti. I surrogati de Il Mondo dei Replicanti organizzano aperitivi domestici a base di sostanze da sballo, squid dal retrogusto bigelowiano che certificano quanto il vecchio mondo rappresenti ormai un lontano e sgradito ricordo, e come gli esseri che lo popolavano siano ormai destinati ad un’inevitabile estinzione.

HAPPY END, OVVERO LA TRIONFALE GUERRA DI CAMERON

L’equilibrio tra realtà sognata e incubo del reale sostiene l’intera tesi introdotta da Avatar e The Surrogate, non è un caso, quindi, che l’illusorio miglioramento dell’esistenza proiettata virtualmente rappresenti per entrambi la password metaforica di maggior interesse. Cameron e Mostow collegano i propri attori ad una zona percettiva dove è possibile fare “altro da sé attraverso sé”, liberandosi di handicap fisici (la sedia a rotelle di Worthington) o annullando soffocanti patologie della mente (l’agorafobia di Willis). Graphic novel alla mano è il trio Brancato, Ferris, Mostow ad avere l’opportunità di tornare a politicizzare il genere, usandolo come mezzo per arrivare oltre l’intrattenimento tout-court: Contrariamente alle aspettative Il Mondo dei Replicanti si rivela progetto incompiuto, vorrei ma non posso almeno dal punto di vista del messaggio sotto testuale. Il tandem Brancato-Ferris replica solo in parte quanto di buono mostrato con The Game di David Fincher, mancando colpevolmente di approfondire il versante investigativo della vicenda. The Surrogates resta intrappolato tra quello che sarebbe potuto diventare (le accennate citazioni “epidermiche” di Essi Vivono di John Carpenter) e ciò che finisce per essere: nulla più di un film piacevole, durante la stesura e la realizzazione del quale nessuno, tra regista, sceneggiatori o direttore della fotografia decide di sporcarsi poi tanto le mani. Con Terminator 3 Mostow aveva lasciato ben sperare, tingendo di funereo nero il terzo tassello della saga androide: ne Il Mondo dei Replicanti rinuncia a reiterare la sterzata negativa alterando emotivamente una chiosa, quella a firma di Venditti, che tutt’altro intendeva comunicare rispetto al buonista finale cinematografico, limitandosi dunque a dichiarare la propria passione per il botulino prestato alla macchina da presa (oggi Bruce Willis ieri Arnold Schwarzenegger). Un passo più lungo della gamba, lo stesso compiuto, ma con successo, da Cameron. A 13 anni dalle 11 statuette che lo consacrarono, autoironicamente, come il “re del mondo”, il pluripremiato e osannato cineasta torna a far parlare prepotentemente di sé attraverso armi e genere a lui più congeniali, alzando finalmente il sipario su un’epopea di quasi 3 ore, all’interno della quale convergono ossessioni e autoriali linee guida care al regista. Dall’insistente e incontaminata presenza dell’acqua (The Abyss) al riverbero della donna tutta d’un pezzo (oltre alla rediviva Sigourney Weaver le new entry Zoe Saldana e Michelle Rodriguez, ideali prolungamenti di una galleria femminile in grado di spaziare dalla Sarah Connor del dittico Terminator alla Rose DeWitt Bukater di Titanic). Politicamente correttissimo, ossessionato da un’ostinata filosofia new age, Avatar rappresenta il trionfo finale di tecnologia e sentimenti. Qui l’unico regista al mondo capace di resuscitare un antagonista per trasformarlo in fonte di salvezza (Terminator 2), riesce nell’impresa di tramutare un invalido marine in un guerriero prestante e coraggioso, sbalordendo chi guarda con un prodigio tridimensionale in grado di non annoiare mai, lasciando addirittura a bocca aperta lo spettatore, quando, in pieno sottofinale, si assiste increduli ad una sequenza action che prevede un western in terra e un war movie in aria. Il cinema di James Cameron è da sempre forma elevata a potenza con al seguito il minimo indispensabile di sostanza. Pretendere di più equivarrebbe a rimanere delusi. La questione è tutta nei limiti, cosa che Cameron conosce mentre Mostow no. Riuscirà l’allievo a superare il maestro?

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