THE FALL di Tarsem Singh

REGIA: Tarsem Singh
SCENEGGIATURA: Tarsem Singh, Dan Gilroy, Nico Soultanakis
CAST: Catinca Untaru, Justine Waddell, Lee Pace, Kim Uylenbroek, Aiden Lithgow
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2006

IL REGISTA DELL’ESTRANIAMENTO INVOLONTARIO

Cinema nel cinema.  Ovvero parlare della settima arte utilizzando non solo il linguaggio e la grammatica della macchina da presa, così come suggeriva Astruc nel famoso saggio di metà secolo scorso “La camerà stylo”, ma cercando anche un nuovo codice espressivo capace di diventare quasi transcodificazione (in questo caso) a metà strada tra sogni e tele impressioniste. Tarsem e la “caduta”, The Fall appunto, con la sua fotografia impeccabile e i suoi colori patinati è un gioco sullo sguardo, sul vedere e sull’amore per il cinema. È Nuovo cinema paradiso e Il labirinto del fauno (film uscito in contemporanea) mescolati e mai shakerati che cercano di impressionare attraverso immagini accattivanti e morbidi movimenti di macchina. Un omaggio al mestiere del cinema e alla lanterna magica che attraverso la fervida immaginazione di una bambina arriva agli occhi dello spettatore come un bagno di fantasia che diventa gioco crudele e cerebrale ogni qual volta s’incontra e si scontra con lo sguardo disincantato di Roy, ex stuntman paralizzato dalla vita in giù a causa di una brutta caduta da cavallo durante le riprese del suo primo (e unico) film.

La parola fall in Tarsem assume diversi significati anche metaforici: dalla caduta vera e propria del protagonista che dà il via a tutta la storia, all’innamoramento (dall’inglese to fall in love with) della piccola Alessandria per quel mondo di fantasia che le permette di evadere dal grigiore dell’ospedale nel quale è rinchiusa e per il suo amico Roy che una volta dimessa ricercherà in ogni pellicola che le capiterà di vedere.

The Fall pur essendo il miglior film realizzato da Tarsem fino a oggi e pur avendo alle spalle due registi/produttori come David Fincher e Spike Jonze, non riesce a coinvolgere a pieno lo spettatore e a risultare genuino, perché il talento “visionario” del regista indiano lo lega ad immagini troppo finte, pulite e poco appassionanti. Ogni scelta sembra aver seguito un percorso quasi scientifico che seppur di grande impatto dal punto di vista formale ha la grandissima pecca di rubare la scena alla storia e di rendere il racconto quasi superfluo. Fincher e Jonze, anche essi provenienti dal mondo della pubblicità, hanno imparato la tecnica per metterla al servizio della storia ben capendo le differenze tra linguaggio commerciale e linguaggio artistico, mentre Tarsem si perde nella ricerca di immagini che non si legano affatto al racconto che cercano di portare avanti. Le slow motion, i lunghi carrelli, i crane e tutti gli inserti scenografici/cromatici lasciano il tempo che trovano poiché legati alla ricerca di un estetismo fine a se stesso. Così come nel recente Mirror Mirror, in cui ogni volta che la regina si immerge nel regno dello specchio magico ci sembra di ritrovarci in un mega spot della Nike, le immagini della “favola” che portano avanti Roy e Alessandria in The Fall spesso sono troppo perfette per essere comprese e condivise appieno. Non c’è mai una sporcatura, un singolo frame che non voglia essere “bello” al limite dell’artificiale. Risultato estraniante che nulla di sbagliato avrebbe se non cercasse in tutti i modi di non esserlo. Una tecnica dell’estraniamento inconsapevole che forse è ciò che ricorre più spesso nella cinematografia del regista di Jalandhar. La sua formazione nel mondo del videoclip e della pubblicità è troppo vivida per poterlo rendere un autore cinematografico a trecentosessanta gradi. L’amore per il cinema sarà anche genuino, ma siamo lontani sia dall’estro felliniano di 8 e1/2 sia dalle ludiche immagini burtoniane di Ed Wood che ben reinterpretavano le atmosfere del cinema di serie B e Z per dar vita ad un compendio sull’arte e l’artigianalità del cinema.

Tarsem purtroppo ha poco di artigianale e troppo di artificiale. A sugello di tutto ciò l’inizio e la fine del film vengono commentati dalla settima sinfonia di Beethoven che rendono ancor più pubblicitarie ed impersonali le immagini che vorrebbero mettere in risalto l’incidente del povero Roy prima e omaggiare alcune sequenze famose della storia del cinema poi, con scarso risultato.

In sostanza un regista con ottime qualità ma in cui l’occhio è decisamente più potente del cuore, dell’anima e dell’idea che c’è dietro di esse.

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