ROMANZO CRIMINALE di Michele Placido

REGIA: Michele Placido
CAST: Kim Rossi Stuart, Stefano Accorsi, Anna Mouglalis, Pierfrancesco Favino
SCENEGGIATURA: Rulli, Petraglia, De Cataldo
ANNO: 2005

ITALIAN TABLOID

Dopo i fischi veneziani, Placido decide di ripercorre le sue origini cinematografico-televisive più o meno lontane (Romanzo popolare, La piovra) per portare sul grande schermo il più grande affresco criminale su carta che l’Italia letteraria abbia mai avuto tra le dita. Tratto dall’omonima opera di De Cataldo, Romanzo Criminale è un armonico esempio di darwinismo malavitoso, che narra le gesta di una ghenga di bestie feroci in grado, a cavallo degli anni settanta e ottanta, di conquistare Roma e di spaventare l’Italia intera. 
Iene metropolitane, figure pasoliniane intrappolate tra la miseria delle case popolari di Tor di Nona e della Magliana, che, esasperati da un destino avverso da generazioni, decidono di arrampicarsi fino all’ultimo piano del grattacielo della criminalità, prendendo di petto tutto e tutti: dalla polizia ai vecchi padroni imborghesiti; finendo per cadere uno ad uno, come romantici antieroi: chi in un vespasiano, chi davanti un negozio di antiquariato, chi sulla scalinata di una chiesa. La pellicola di Placido muove i suoi primi passi ideologici proprio dal film di Monicelli, cambiando lo sfondo urbano con Roma che si sostituisce a Milano, mantenendo però lo scorcio storico: quello dell’Italia degli anni settanta, in equilibrio precario tra la povertà dei quartieri popolari e il boom economico che si è appena lasciato alle spalle. La Roma di Romanzo Criminale è una capitale intrappolata tra tradizione e industrializzazione, asfissiata dalla paura sociale alimentata dalle agitate minoranze rumorose, humus ideale per far germogliare una delle associazioni criminali più barbare che la nostra storia recente ricordi.

Il film parte bene, stupendo in positivo almeno nei primi minuti. Appena trascorso l’incipit fanciullesco infatti, il regista ricicla sullo schermo l’escamotage utilizzato dal magistrato-scrittore con il segnalibro interno del suo romanzo. L’occhio viene quindi rapito dal ritmo dei titoli di testa, sincronizzati alla perfezione con le istantanee di presentazione dei protagonisti; un espediente tipicamente di genere, che rompe il ghiaccio con successo e catapulta lo spettatore nella tragica epopea della banda. I dialoghi, colorati di cadenze dialettali, risultano a dir poco coinvolgenti e calzano a pennello con le psicologie e le maschere dei personaggi, curate con minuzia e solerzia. Gli sceneggiatori Rulli e Petraglia ci mettono del loro, indugiando spesso sui fatti di cronaca vera, che si incastrano con una trama, solo a tratti romanzata, come il tassello mancante di un puzzle. Placido opta per una regia “naturalistica”, lascia esprimere il capitale recitativo messogli a disposizione intervenendo poco o niente, limitandosi ad accentuare il tono drammaturgico di alcune scene chiave, come l’omicidio in pieno giorno del Terribile sulla scalinata di Piazza di Spagna, o le pugnalate alle spalle di Libano da parte di Gemito. La vera forza di Romanzo Criminale infatti, sta nelle interpretazioni dello sfavillante cast, che per gli standard italiani è una vera e propria sciccheria. Eccezion fatta per Accorsi, che non riesce quasi mai a far vibrare le corde giuste del suo personaggio, il resto dei protagonisti (Favino e Scamarcio su tutti) perviene nell’impresa di far rivivere su pellicola gli amori, le ossessioni e le inquietudini del triangolo di amici che reggono le fila della gang. 
Più che dalla personalità dietro la macchina da presa di Placido infatti, le scene più coinvolgenti (l’addio tra Libano e il Freddo e il faccia a faccia tra Accorsi e Kim Rossi Stuart) sembrano trascinate dalla naturale alchimia degli interpreti, a conferma che in Italia di talenti ce ne sono eccome, e che basta solo utilizzarli bene per farli rendere al meglio. Di contro però, la pigrizia e la sciatteria di Placido, dimostrate durante le due ore e mezza di durata, dovrebbero far riflettere e non poco. Con il materiale al tritolo che aveva a disposizione, era francamente impossibile bucare il film, ma è altrettanto vero che un crime movie non si gira in questo modo. Per tutta la durata della pellicola infatti, non si vede un inseguimento neanche per sbaglio, le sparatorie e gli agguati latitano, e di conseguenza i gangli ritmici della narrazione finiscono ben presto per ingolfarsi in una serie di gineprai psicologico-intellettuali caratteristici di un certo tipo di cinema italiano, che vorrebbe essere d’essai anche quando non se ne sente il bisogno.
Con il passare dei minuti, Placido si dimostra troppo poco cattivo per approcciarsi al meglio verso questa tipologia di racconto. Gira come se pensasse ancora con la testa del commissario Cattani, mentre in questo caso sarebbe stato più indicato un piglio alla Cariddi. A provare quanto detto, c’è il pessimo finale, che si riallaccia con un tono buonista e inutilmente melassoso all’infanzia dei tre. 
628 pagine inoltre, avrebbero avuto bisogno di un minutaggio molto più ampio, per respirare a pieni polmoni sul grande schermo. Stupisce quindi che agli sceneggiatori non sia barlumata l’idea di riproporre in Romanzo Criminale la divisione in atti che aveva caratterizzato, ad esempio, la scansione narrativa de La meglio Gioventù; certo, la percentuale di rischio da affrontare era elevata, ma solo in questo modo si sarebbero potute cogliere al meglio le sfaccettature più profonde del masterpiece decataldiano. La sceneggiatura infatti, si concentra quasi esclusivamente sui rapporti che intercorrono tra Libano, Dandi e Freddo, lasciando così sullo sfondo personaggi come Bufalo, che nel romanzo raggiungeva tutt’altro spessore, o addirittura omettendone altri, come il Ranocchia o Raffaele Tutolo. Alla completezza viene quindi contrapposta la sintesi, che non provoca sbalzi incomprensibili nell’ economia dell’intreccio, ma alla resa dei conti risulta poca cosa rispetto al romanzo. 
Romanzo Criminale è sicuramente un film piacevole che, pur con mille difetti, riaccende la speranza di un cinema di genere popolare, in grado di liberarsi dai carabinierismi televisivi. Mentre scorrono i titoli di coda però, una domanda mi rimbalza come impazzita nella testa: cosa sarebbe successo se un soggetto così dannatamente esplosivo fosse stato messo nelle mani di qualche nostro “vecchio” regista d’azione come Castellari o Lenzi?
Ai posteri l’ardua sentenza.

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