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NETFLIX – THE OA: I want to believe (?)

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NETWORK: Netflix
IDEATORI: Brit Marling, Zal Batmanglij
REGIA: Zal Batmanglij
CAST: Brit Marling, Emory Cohen, Scott Wilson
DISTRIBUZIONE: 16 dicembre 2016 (serie completa)

Guardare The OA significa compiere un atto di fede. Letteralmente: la fede è la sua forma stessa, la sua materia prima, la condizione sine qua non con cui si concede alla nostra visione. Fede nel titolo oscuro (il cui riferimento viene svelato soltanto nel penultimo episodio), nell’inusuale pilot (che è un lunghissimo prologo, i cui titoli di testa arrivano dopo 60 minuti), nel mix oblungo di generi (a ritmo rapsodico, tra sci-fi new age, hostage movie, dramma sociale, mèlo), nel fragile narratore (instabile, parziale, compromesso nei propri giudizi sugli altri), nei personaggi principali (apparentemente marginali: altrove sarebbero stati affidati alle retrovie, come mere comparse), e soprattutto nella storia (che si dipana quasi recalcitrante, a scatti d’incredulità, di magia, di resistenza ai confini interiori).

Un atto di fede intesa come fiducia coscientemente incondizionata, spirituale ma non religiosa, nella storia di per sé, ossia in quanto tale, non importa se vera o falsa, reale o immaginata; nella storia come azione purificante, come matrice di scioglimento dei conflitti, di creazione empatica, di cooperazione tra ossessione scientifica e rarefazione metafisica.
Il racconto, ideato dal collaudatissimo duo Batmanglij/Marling (quest’ultima alle prese con un nuovo doppio sogno, dopo il mondo parallelo di Another Earth e la reincarnazione romantica di I Origins), stabilisce un rapporto sorprendente con gli spettatori, che scatta nel momento in cui i titoli di testa sorgono sugli occhi chiusi dei cinque, incantati ascoltatori, mentre la cantastorie angelica comincia a intrecciare la sua vicenda (immaginazione o memoria che sia), facendogli pian piano imparare a sognare, a uscire dal proprio refrattario Io e a entrare in una pelle nuova, per scoprire infine il potere sconfinato dell’empatia (The OA ha molto cuore in comune con la serie “sorella” Sense8, sempre di Netflix).

Nina/Prairie/The OA ci conduce dentro un’esperienza straordinaria, intessuta di un’umanità devastante: la cura della serie per i personaggi è millimetrica, spesso e volentieri s’apre a sussulti, a fratture e a tentennamenti di un vissuto verosimile, come estrapolato da una reazione reale ma senza il setaccio funzionale e strumentalizzato della finzione – basti pensare all’improvvisa rivelazione della madre sul finale, un’agnizione di colpa che dice tutto dell’accuratezza per i dettagli interstiziali e di come ogni esperienza singolare in The OA (come nella vita) produca un movimento, incida sui caratteri; ma anche allo scossone che dà Alfonso a Prairie quando contesta la sua posizione di narratrice schierata, una sorta di campanello d’allarme che rimarca la formazione dell’empatia dentro e per i personaggi, l’apertura vero l’Alterità, anche allo scopo di mettere in discussione il motore propulsivo del proprio cambiamento.

L’atto di fede di e per The OA ci trascina perciò in un viaggio frastagliato (e omerico) da vivere a occhi chiusi e cuore aperto, che spinge la capacità di mantenere alto il belief oltre la soglia di guardia, sfidando i limiti della logica e il senso del ridicolo – da questo punto di vista, è una serie sfrenata pur nel suo intimismo -, con un finale da pelle d’oca come se ne sono visti pochi negli ultimi, burrascosi anni di audiovisivo. Una chiusa intensissima, coraggiosamente contromano, che ribalta una giornata d’ordinaria follia, una tragedia tutta moderna e in implodere, con la strabiliante potenza della propria, purissima, fede.

«Fate finta di credermi, fino a quando non mi crederete davvero», non importa perché.

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