THE IMPOSSIBLE di Juan Antonio Bayona

REGIA: Juan Antonio Bayona
SCENEGGIATURA: Sergio G. Sanchéz, Marìa Belòn
CAST: Naomi Watts, Ewan McGregor, Tom Holland, Marta Etura, Geraldine Chaplin
NAZIONALITÀ: Spagna
ANNO: 2012
USCITA: 31 gennaio 2013

L’INSICUREZZA DEGLI OGGETTI

Bayona dai fantasmi ai morti viventi, dallo scientificamente improbabile all’ecologicamente (im)possibile; in mezzo, fiumi d’amore indistruttibile e terso, di slabbrato nitore. Tanto l’esordio horror The Orphanage trattava di un rapimento (forse) sovrannaturale con tatto evocativo e subliminale, così il dramma(ticissimo) The impossible si concentra su un evento reale e ancora scottante con l’ardere della suspance e l’esplosione calamitosa e catastrofica dell’Orrore.

L’incombenza sempre più prossima della minaccia sdrucciola attraverso le immagini, siano esse convulse riprese home movie di una mattina natalizia, sia che si tratti di un viaggio aereo funestato da intermittenti perturbazioni, o della pagina di un libro che continua irrimediabilmente a separarsi dal suo intero originario. Certo è che l’intento autoriale sia quello di sottoporre minuziosamente chi guarda ad un travaglio incessante, un’estenuazione emotiva propagantesi frame by frame affinché non si tratti più soltanto di guardare qualcuno, ma soprattutto, di soffrire con qualcuno, aggrapparcisi epidermicamente, abbrancati come siamo addosso ai corpi in disfacimento, al tracollo e alla disperazione funesta degli interpreti, alla loro percezione in bilico: sono fili fragilissimi che possono spezzarsi in ogni momento come intrecciarsi quasi per caso (come il bambino biondo salvato e poi perduto e poi riaffiorato/risfiorato/rifiorito).

Dalla salda concretezza della quotidianità alla scoperta della disintegrazione in atto della carne, si assiste passo dopo passo ad una fratturazione dei protagonisti, in balìa degli eventi, in una perenne attesa del niente o del tutto (e insieme della Fine) che li rende involucri vulnerabili ricolmi però di una agìta volontà di sopravvivenza e di ri-unione pulsante e vitalistica. La regia sapiente di Bayona trasmette per induzione l’esperienza traumatica di un maelstrom naturale prima ed emozionale poi, al punto che il brivido di terrore che assale Lukas quando lo sguardo gli cade sulla gamba e il seno martoriati della madre è lo stesso che percorre le schiene appiccicate alle poltrone, tanto lo schiaffo è improvviso e violento, quasi barbaro. Eppure al contempo, per contro, si colgono attimi fugaci d’umanità dolce (il (non) sfiorarsi delle mani di Maria e Daniel) e dolente (la telefonata discioltasi in lacrime di McGregor).

The Impossible è amplificazione del vissuto intimo che aggredisce strappando la partecipazione viscerale, è scontornamento del survival movie, che divide l’odissea tragica in due tronconi per poi ricongiungerli con mestiere, barcollando un po’ sulla via dello strappalacrime, della sottolineatura esasperata, di ogni respiro che è un urlo strozzato; ma ad imporsi è la forza cinematografica con cui scaraventa sulla graticola l’aspettativa spettatoriale e graffia le budella, nelle scene bunkeriane – sott’acqua, sotto i rifiuti, sotto cieli svuotati. Tanto che la sequenza più mirabile è forse la resurrezione amniotica dalla catastrofe interna ed esterna di Maria, ralenti dell’anima che intreccia la violenza interminabile dei flutti alla fatica dell’ascesi catartica, anche se appare ai sensi quale rievocazione del volo/caduta/ascesa/annegamento spiritualistico e trascendente di Hereafter.

Bayona è regista di un horror immerso nella costruzione emozionale e apodittica, crono e filologica, intrisa di struggimento familiare, che approda ad un finale di ultracommozione (in The orphanage era in punta di piedi, inauditamente sottotono, qui ha un timbro straziante e sovraesposto), (tra)passato ad un vaglio di curva esponenziale crescente, il coinvolgimento s’impenna a mille all’ora, non concede tregua, punta dritto dritto all’immedesimazione congestionale, al bombardamento sensoriale, al meccanismo esperienziale, alla finalità crudamente commemorativa.

Resta, nella chiusa, il valore veicolare, memoriale ed emozionale degli oggetti (non (più) solo) di scena, i quali da segni premonitori del disastro diventano la sua prova postuma, i testimoni oculari tattili. Un adesivo, un foglietto, un nome sbagliato impresso sulla pelle sono le tracce indelebili di un passato che vuol essere prima di tutto, alla pari del film stesso, ferita aperta, lacerazione endemica, ricordo aderente sottopelle. Mettere in scena la realtà che fu attraverso un voyeurismo finzionale per ridurci allo stremo e, dunque, avvicinarci al piano emotivo di chi c’è stato, e amalgamarne le sensazioni quanto meno cutanee per renderle inscindibili e dilatarne lo strazio. The impossible deborda forse oltremisura, ma la verità della rappresentazione esplode a fior (e furor) di pelle.

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