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GRACE DI MONACO di Olivier Dahan: …Solo non si vedono Garko e la Arcuri

grace di monaco (2)

REGIA: Olivier Dahan
SCENEGGIATURA: Arash Amel
CAST: Nicole Kidman, Tim Roth, Paz Vega, Frank Langella, André Penvern
NAZIONALITÀ: USA, Francia, Belgio, Italia
ANNO: 2014

Non manca più nessuno, solo non si vedono Garko e Arcuri

C’erano una volta una principessa, una reggia, un mondo in pericolo, un principe silenzioso, un sacrificio da compiere e un cattivo da conquistare. C’erano, prima, un’attrice folgorante e una carriera sfavillante e ancora promettente oltre ogni dire. Ci furono, dopo, scompigli politici, gabbie dorate e un “vissero felici e contenti” che sembrava puzzare di bruciato dalla prima notte di nozze. Di tutto questo vorrebbe parlare Grace di Monaco: della crisi interiore della sua icona, di quella del principato di Monaco incasinato dalla diaspora con la Francia di De Gaulle, di un matrimonio da ristabilire e di una vita passata da chiudere in uno stanzino malinconico della memoria; dissidi pubblici e privati abbelliti da beneficienza dorata, abiti sgargianti, ammiccamenti cinefili. Di tutto questo vorrebbe ma non può, e quel che può e che riesce sa di posticcio lontano un chilometro.

Se il recente biopic sad-principesco, Diana, era ugualmente una soap opera ma almeno vagamente onesta e con un’attrice profonda che dava vita ai contorni, qui la Kidman, pilastro di un maldestro film-calderone, pur brava e in parte risulta monocorde e quasi intimidita dalle circostanze impegnative del ruolo. Ed è soprattutto malissimo accompagnata dalla partitura che la circonda, che si compone di una regia ubriaca (tremendi i continui primissimi piani brancolanti), svariati errori di un montaggio fatto coi piedi e assemblato con mani d’argilla (il repellente e inspiegabile split-screen della telefonata tra Hitch e Grace è da trauma istantaneo), un accompagnamento musicale di ridondanza sconcertante, personaggi monolitici da pernacchia (frate Tuck, ops, padre Tucker) e una sceneggiatura grossolana che agonizza fra l’agiografia sacrale della star, i rumors politici (ma l’intrigo di palazzo ordito da Madge sembra uscito da un episodio random di L’onore e il rispetto) e l’ode retorica a una favola ribadita fino all’estenuazione, resa plasticosa e soltanto glamour. Poi, si ciancia tanto d’amore, di sogno e di favola, ma qui l’unica cosa autentica pare il capitalismo dei nobili arroccati: business is business, insomma, e non ci crede nessuno al principato salvato dal “vive l’amour!” di Grace Kelly.

Infine, quello che loro malgrado rimarcano sia il bel pianosequenza iniziale con quello slittamento immaginifico tra realtà e finzione, vita e schermo, sia il finale sospeso e onirico – momenti che sembrano appunto strappati a un’altra invisibile pellicola – è quello che avremmo potuto e voluto vedere, e quanto sia triste che un film su una delle regine della storia del cinema mondiale si dimentichi proprio del cinema.

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