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Perdona il padre e la madre: PRISONERS di Denis Villeneuve

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REGIA: Denis Villeneuve
SCENEGGIATURA: Aaron Guzikowski
CAST: Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Paul Dano, Melissa Leo, Maria Bello
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

Quando e se Ben Affleck deciderà di girare il suo Mystic River, difficilmente riuscirà a portare a compimento un’opera dallo spessore pari a Prisoners. E’ questo il miglior attesto di stima che si possa fare al canadese Villeneuve, felicitazione spontanea, lode meritata, che lo colloca sullo stesso livello artistico di chi, finora, veniva considerato dai più come il vero erede del Clint Eastwood regista: l’allievo, d’improvviso, sente sul collo il fiato dell’aspirante tale. Almeno fino al prossimo film.

Pellicola di fatto su commissione e inizialmente destinata a Bryan Singer, Prisoners passa nelle mani di Denis Villeneuve il quale, anziché adeguarsi al compitino d’esordio hollywoodiano, ne estrapola un film con la F maiuscola. Per avvicinarsi a Mystic River ci vogliono attributi e talento, doti che a Villeneuve non mancano e che gli permettono di elevare la sua prima americana ben oltre l’asticella delle aspettative. Risultato non alla portata di tutti, basti pensare all’inglese Nick Murphy: autore di quel Blood tutto made in UK capace soltanto di sfiorare il modello eastwoodiano, lasciandosi alle spalle non pochi rimpianti.

Seppur inserito in un solco di pellicole a lui precedenti, dai vari Gone Baby Gone, Zodiac e Amabili Resti (senza tacere di un certo gusto per l’indagine televisiva di qualità, avvicinabile al danese Forbrydelsen), Prisoners succhia il giusto stando bene attento a non farsi schiacciare dall’ispirazione, che resta resta si palpabile, ma mai soffocante. Villeneuve conduce per mano la sua creatura grazie ad una regia a prova di crepa o di qualsivoglia indecisione visiva, incastonata nelle sue marmoree prospettive dai riflessi di una fotografia abrasiva e graffiante: palcoscenico ideale per un cast mai sotto ritmo emotivo, anche quando l’attenzione si decentra sulle figure dei comprimari.

Epicentro del confronto morale, Gyllenhal e Jackman danno vita ad un duetto che li approssima a quanto inscenato da Bacon e Penn in Mystic River: ognuno custode di un fascino oscuro, s’impossessano a turno della scena; psicologie elaborate, corpi pesanti e monumentali come i movimenti di macchina che li accompagnano, entrambi prigionieri di ossessioni che hanno origine in segreti arcani (i tatuaggi nascosti a fatica dal primo, il bunker dal retaggio antiatomico edificato dal secondo), riverberano l’immagine impaurita e perennemente allerta di una certa America d’oggi: terra devastata dalle conseguenze mentali dell’11 settembre che “prega per il meglio aspettandosi il peggio”, in bilico tra giustizia e illegalità nel momento in cui si (ri)trova a fiutare le tracce lasciate dai mostri custoditi nel suo ventre molle, classificati un gradino al di sopra lo status del white trash. Ovvero quell’entroterra represso, ignorante, geneticamente violento e incline alla tortura che Territories – guarda caso diretto da un altro canadese, il francofono Olivier Abbou – aveva già celebrato in tutta la sua minaccia post Guantanamo riprodotta in scala; qui richiamato con tutt’altra malizia, la stessa che contrappone l’arrendevole esponente della famiglia di colore ai modi spicci e brutali dello statunitense bianco, onesto lavoratore, carnefice di un presunto innocente.   

Religione, infanzia, patria, famiglia. Prisoners affronta senza mai inciampare tematiche scomode e scottanti, soffrendo appena le conseguenze di un minutaggio in tutta franchezza eccessivo. Non esiste libertà di cui valga la pena godere, catarsi o luce alcuna, alla fine del tunnel di Prisoners; se non quella, abbagliante, di un film con il quale bisognerà fare i conti a lungo.

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