DAVID FINCHER pt. 1 – Una storia americana

UNA STORIA AMERICANA

Il concetto di tempo e l’agiografia di una nazione nell’ultimo Fincher

E’ innegabile che qualcosa sia cambiato. Almeno da Zodiac in poi: momento in cui il cinema di David Fincher ha messo da parte precise coordinate poetiche al fine di sfruttarne, ma sarebbe meglio dire approfondirne, altre. Zodiac, Il curioso caso di Benjamin Button e The Social Network costituiscono un triangolo di mezzo, quasi fossero vezzo pianificato o parentesi inevitabile, pausa necessaria ma non per questo obbligatoriamente slegata dal punto di vista intellettuale rispetto al passato, ciò nonostante fondamentale per il proseguo di una carriera registica e al tempo stesso conseguenza diretta di quanto già parzialmente seminato in passato, arco temporale da chiudere e poi riaprire mettendo mano a Millennium Uomini che odiano le donne. Alien 3, Seven, The Game e Fight Club gravitavano attorno a sistemi filosofici palesi e riconoscibili, come quello preponderante della ricerca di un’identità all’interno di universi conflittuali, doppi e maschiocentrici; dove il gioco, la trappola o il gatto contro il topo facevano da cartina di tornasole: sottopelle in The Game, manifesta in Panic Room. Pur comprendendo buona parte degli idiomi pronunciati dai loro predecessori, Zodiac, Il curioso caso di Benjamin Button e The Social Network guardano oltre, come a voler aggiungere dell’altro, parlando la stessa lingua ma con un altro accento, forti di una forbice di riflessione (quella che separa Panic Room da Zodiac) lunga cinque anni. Tre film che lavorano sul concetto di tempo provando a raccontare dall’interno le storie di una nazione. Ma andiamo con ordine..


IL TEMPO DILATATO: ZODIAC

«Quel significato sono io. Sono io quell’energia. Un giorno gli uomini diranno, guardandosi indietro, che sono stato il precursore del XX Secolo»

 From Hell, Alan Moore e Eddie Campbell 

157 minuti. A voler essere pignoli 162, se si tiene conto della versione director’s cut. Zodiac è uno dei film più lunghi mai diretti da David Fincher, secondo solo a Il curioso caso di Benjamin Button. Un minutaggio direttamente proporzionale alle necessità di racconto inerenti alla mission della pellicola, che nulla lascia al caso: attenta, placida, quasi ciclopica nel suo elegante incedere. Zodiac è la cronistoria di un’ossessione immortale, eterna e invisibile, come la mano assassina di un killer mai catturato: “genio” atroce e mostro inafferrabile. Il ritmo atipico, la decentrazione intorno ai personaggi e il conseguente accantonamento visivo dei fatti in sé fanno di Zodiac uno Strangolatore di Boston dei giorni nostri, dove il dramma umano spodesta il thriller: al centro della lente analitica non c’è solo il singolo emarginato, bensì una nazione intera, filtrata attraverso gli occhi di quattro inseguitori. Con Zodiac Fincher brevetta ciò che Fight Club aveva involontariamente creato: lì si era già nell’immediato dopo 11 settembre, ora invece è tempo di redigere una agiografia autorizzata e consapevole di una congregazione di stati, che ragioni non solo sul futuro prossimo, ma addirittura su tre concentrici cerchi, capaci di coinvolgere anche passato e presente. Zodiac si ingegna attorno al concetto di tempo dilatandolo fino all’inverosimile, sobbarcandosi il rischio, calcolato, di mettere a dura prova la pazienza dello spettatore. Un male necessario, essenziale se si vuole resocontare un’ossessione infinita e sfuggente; Zodiac lavora con e ai fianchi del tempo perché consapevole di come questa sia l’unica strada percorribile nel momento in cui ci si prefigge l’obiettivo di raccontare una vicenda che sfugge al concetto stesso di tempo in quanto insoluta, mai risolta, quindi infinita. Ne consegue che durata, andatura e battiti non possano non essere concepiti così come poi successivamente immortalati, in quanto saturi d’attesa già a partire dalla fase embrionale. Zodiac attraversa decenni di storia americana con passo lento e sicuro, quasi inquisitore, tirando fuori il meglio delle sue potenzialità nel momento in cui utilizza il cinema come cartina tornasole di usi e costumi statunitensi, votati al dimenticatoio mediatico e alla naturale conversione in entertainment. L’America infatti, è tutta nello sguardo del detective Dave Toschi durante la proiezione di Dirty Harry. Il mostro in prima pagina non c’è più, è tempo di exploitation.


IL TEMPO ALTERATO: IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

«Io non tremo è solo un po’ di me che se va»

Bye Bye Bombay, Afterhours

 Lo step è naturale, modalità d’arrivo e traguardo raggiunto anche. Il curioso caso di Benjamin Button rappresenta quanto di più congenito potesse accadere al cinema di David Fincher all’indomani di Zodiac. Se il precedente criminale iniziava a tratteggiare parte di una storia nazionale rallentando il tempo cinematografico, l’opera successiva altera il canonico rincorrersi delle lancette muovendole al contrario. Dopo l’incubo dello Zodiaco, Fincher mette mano ad un’altra grande storia americana, spingendosi fino alle origini culturali di questa, scavando a fondo fino a tornare all’Età del Jazz, al fine di impossessarsi di un breve racconto di Francis Scott Key Fitzgerald: quindi recuperandone le radici, tanto culturali (New Orleans, il jazz, la sua diffusione su scala popolare) quanto storiche (ovvero i “ruggenti anni ’20”, quelli che caratterizzarono gli Stati Uniti tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’inizio della Grande Crisi del ’29). Il settimo Fincher è successione di fotogrammi filtrata dal pensiero “bergsoniano”, opera che a priori rifiuta il concetto di tempo canonico, fisico e matematico per opporvi una concezione reale e personale dello stesso, attraverso la quale fruirlo, assaporarlo, ricordarlo. Quindi cinema all’ennesima potenza, in quanto finzione che diventa tale prendendo spunto dalla scientifica realtà (la progeria che affligge il protagonista) e che della realtà, in quanto storia, non può fare a meno al fine di alterarne il percorso. Il flashback naturalmente, si palesa fin da subito come escamotage tecnico-narrativo necessario e funzionale, atto ad invertire la naturale tendenza a vettorializzare la direzione del racconto. Fincher incontra Fitzgerald non tanto per sfidare o alterare le regole della settima arte, bensì per sbeffeggiare le leggi naturali pur prendendo spunto da esse: nascere decrepiti per morire in fasce, ringiovanire fuori invecchiando dentro, sentire le tue cellule spegnersi una ad una mentre la tua pelle inizia a diventare candida.  In mezzo c’è di più, cioè la necessità di un autore di proiettarsi oltre rispetto a quanto formalmente confezionato prima, raccontando la sua, personalissima Nascita di una nazione partendo da un luogo (New Orleans) che il presente (o il futuro?) della sua creazione ultima non riconosce più, in quanto scomparso. Tempo che si trasforma in contro-tempo, Il curioso caso di Benjamin Button nasce nell’anno in cui termina la Prima Guerra Mondiale, cresce vedendo scoppiare il secondo conflitto bellico e muore guardando le macerie lasciate dall’uragano Katryna, ciò nonostante si configura con il più positivo tra i film mai diretti da David Fincher, un inno alla vita, suonato però seguendo scale musicali antitetiche rispetto a quelle riconosciute e accettate dalle scansioni temporali e naturali.


IL TEMPO ACCELERATO: THE SOCIAL NETWORK

«Oh no, non io
non abbiamo mai perso il controllo
sei faccia a faccia
con l’uomo che vendette il mondo»

The man who sold the world, David Bowie

Il penultimo Fincher è il futuro, avanti anni luce persino rispetto a Millennium, nonostante lo anticipi di un anno. The Social Network è la rivoluzione, il nuovo che avanza, Millennium il vecchio che ritenta. Password, firewall, caselle di posta elettronica violate assieme alla privacy: questo è Millennium; poco o nulla nei confronti del mondo dopo Mark Zuckerberg, di fronte a Facebook, ai gusti, alle amicizie, agli amori, alle passioni, agli status, alla privacy che non esiste più in quanto si sceglie di rinunciarvi. Termini antichi, svuotati di un significato che non sia virtuale, quindi di un passato che non è e mai potrà essere (più) futuro. Dopo Zodiac e Il curioso caso di Benjamin Button è nuovamente il tempo e il suo utilizzo a destare attenzione e spunto d’analisi, dopo Fitzgerald ecco un altro testo letterario a fare da sponda ispiratrice, dopo quella iniziata nei ’60 ecco un’altra epopea, ecco un altro, inafferrabile “genio”. Se Zodiac rallentava il tempo e Benjamin Button lo alterava, ecco che The Social Netwok lo accelera: questo perché i precedenti due si appoggiavano sulla parola, su modalità di racconto paratradizionali, su storie da raccontare comunque passate (Zodiaco, il jazz, Prima e Seconda Guerra Mondiale, Katryna) mentre The Social Network annulla il concetto stesso di interazione face to face, guarda al futuro e vive di polpastrelli richiamati all’ordine su una tastiera, di chat immediate, di parole volutamente tronche, di lettere che s’incontrano dopo anni di divisoria e irremovibile matita rossa. Non parla, comunica. Ma alla velocità della luce. Le sue non sono pulsazioni, pause o respiri. Bensì bit. 0 1. The Social Network introduce i comandamenti di una rivoluzione a partire dall’incipit: Mark Zuckerberg e Erica Albright discutono attorno ad un tavolo, ma il dialogo deraglia ben presto in quanto le battute si rincorrono sorpassandosi vicendevolmente. Zuckerberg e Albright non conversano, bensì discutono alla velocità di una chat, tanto che chi guarda fatica non poco a capire chi sta dicendo cosa a chi, Erica Albright si alza  portandosi via le richieste, i sentimenti e le esigenze di un mondo vecchio, che Zuckerberg rifiuta semplicemente perché non può capirlo, essendo momentaneo ologramma di un futuro che sta per abbandonare il presente. The Social Network calpesta Millennium nel momento in cui presenta Sean Parker, retaggio di un passato che sta al presente come l’informatica nera sta al file sharing, in quanto Timberlake funziona attraverso la medesima formula che darà vita alla gutter punk Lisbeth Salander, perché creatore di un dinosauro, un vecchio spauracchio (Napster), vintage quanto le e-mail preda di Rooney Mara. Nonostante ciò The Social Network è anche storia, seppur in fieri. Tra trenta, cinquantanni, gli ebook scolastici non citeranno più Fitzgerald, ma molto più probabilmente Miliardari per caso – L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento. Cosa siamo diventati, d’altronde, lo racconta già il finale di The Social Network: giovani uomini tristi di fronte ad un pc, in attesa di condividere “un’amicizia”.

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