COMPLIANCE di Craig Zobel

REGIA: Craig Zobel
SCENEGGIATURA: Craig Zobel
CAST: Ann Dowd, Dreama Walker, Pat Healy, Bill Camp
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012

LA VOCE DELL’INCUBO

Visto a Locarno e fuori concorso nella sezione “Rapporto Confidenziale” del Torino Film Festival, Compliance parte in un modo che ha ben poco a che vedere con il resto del film. L’avvio muove infatti da un senso di familiare e spensierata colloquialità che poi sarà puntualmente smembrata pezzetto per pezzetto, con uno stile impietoso e programmatico che somiglia alla resa in forma esplicita di un’equazione esatta e inquietante, così geometrica da somigliare al più rigido dei teoremi impliciti da portare alla ribalta delle cronache. Sandra, responsabile in capo di un fast food, riceve la telefonata di un uomo che dichiara di essere un poliziotto e che la informa che una sua giovane dipendente, Becky, va perquisita perché sospettata di furto di denaro dopo che una cliente l’ha denunciata per averle sottratto indebitamente dei soldi. Segue un gioco al massacro che sembra rubato a Niente da nascondere di Haneke anche se privo delle insistenze sadiche e compiaciute e delle riflessioni formali imposte dallo stile crudissimo del regista austriaco. Il motore primario è piuttosto quello dell’accusa pretestuosa in virtù della quale l’ordine, l’armonia e la fiducia vengono turbati e stravolti senza nessuna possibilità di ritorno; ed ecco che allora i volti si inscuriscono e gli sguardi acquosi e ridotti a fessure si fanno sempre più sospettosi e taglienti, accecati dalla malevolenza e dal dubbio. La costrizione operata dall’alto da parte di un’autorità manipolatrice, nel pieno esercizio manicheo delle sue funzioni, diviene strumento di controllo assoluto sulle persone, sulle loro colpe presunte e non accertate. Compliance adatta così un fatto di cronaca più volte verificatosi in America, quello del pazzo di turno che si spaccia per un poliziotto con esiti tutt’altro che indifferenti (settanta incidenti del genere sono avvenuti in trenta Stati americani, come ci dice l’informativa didascalia finale) e riflette in modo politico sul potere della finzione e della menzogna come veicolo indispensabile per legittimare il proprio potere e per legalizzare concretamente l’esercizio di una libertà vessatoria sul prossimo. Un’opera che scruta nell’angoscia della quotidiana nevrosi orchestrando una lieve sinfonia di fobia crescente che è sorvegliata e intelligente, dosata e attenta a non scadere nella voragine della gratuità. L’agente che esercita al telefono la sua coercizione poliziesca è in incognito per quasi tutto il film, negato tanto ai protagonisti quanto agli spettatori. Quasi un fattore X esterno e avulso che tesse le ragnatele ansiogene da una sede ignota e non collocata nello spazio, proprio come consuetudine vuole che avvenga per il prototipo del cattivo invisibile e sopra le parti del più classico e canonico degli slasher movie.

L’aspetto notevole di Compliance è però anche la malleabilità del suo sguardo, una caratteristica che a lungo andare emerge anche se esso appare inserito a forza in una struttura chiusa e stringatissima come il più stipato dei fortini. Il regista Craig Zobel ha una visione che è maniacale e attaccata ai dettagli tanto quanto la smania pruriginosa di quella voce che vuole sapere a tutti i costi se la ragazza è ancora vestita e se sì di cosa è vestita di preciso. E nonostante il suo sia in qualche modo un dramma centrifugo, che vorrebbe sfuggire ad ogni sorta di empatia centralizzata per i suoi personaggi a tutto vantaggio di un’astrazione priva di sconti, ecco che il film sa raccordarsi un po’ a sorpresa con la sua protagonista denigrata tanto da renderne centrale lo sguardo distrutto e svuotato e da cercarlo con insistenza, sprofondato com’è nel vuoto siderale di quell’abisso che fissa imperterrito. L’odissea diviene fin da subito calvario e il film a dispetto dell’essenzialità che lo contraddistingue si prende comunque i suoi tempi, reitera e carica di senso le minuzie della messa in scena rendendole sempre più disturbanti, è pudico e sa quando sfumare ma conosce anche i modi per essere invasivo nel momento in cui c’è da affondare il coltello nella piaga. Così facendo Compliance riesce a materializzare come meglio non si potrebbe il malessere imposto da una società che piuttosto che guardarsi allo specchio enuclea nella sue istituzioni delle istanze criminalizzanti attraverso le quali le è possibile mettersi la coscienza a posto e continuare a poter posare la testa sul proprio cuscino. Il filo rosso dei peccati inespiati corre dunque attraverso telefonate continue e onnipresenti che coprono almeno il 75% del film, costruito su una strategia della tensione che non può non trovare la sua massima identificazione nello split screen di una telecamera a circuito chiuso verso la quale la protagonista rivolge i suoi occhi grigi e martoriati: emblema filmico privilegiato ed esaustivo dell’ossessione audiovisiva che si fa realtà, a totale immagine e somiglianza di un incubo personale e collettivo.

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