ATTO DI FORZA di Paul Verhoeven

REGIA: Paul Verhoeven
CAST: Arnold Schwarzenegger, Sharon Stone, Michael Ironside
SCENEGGIATURA: Gary Goldman, Dan O’Bannon, Ronald Shusett
ANNO: 1990

LA VIDEOSCIENZA

Innanzitutto il personaggio interpretato da Arnold Schwarzenegger è un evidente stereotipo di quello che vuole essere l’uomo del futuro, di sussulto svegliatosi con mogliettina al proprio fianco, quasi a voler saziare un innato e primordiale desiderio di comprensione e affetto. Apparentemente il letto che li accoglie in un bianco latteo di lenzuola fresche sembra non serbare alcun tipo di innovazione contestuale, né materiale, e fungere altresì da eclatante antitesi a tutto ciò che si vedrà successivamente. Perché alzandosi da quella soffice culla atemporale, il nostro eroe sarà letteralmente catapultato nella realtà tecnologica, mass-mediale, quella più fredda e sporca che si possa immaginare in assoluto. Egli si troverà di fronte a milioni di agenti esterni e influenzanti, contro i quali nemmeno con l’imponente fisicità di cui è padrone si potrà imporre, e in conseguenza di ciò sarà fagocitato da quei fattori machiavellicamente psichici, che sembrano controllare con il loro influsso il futuro e le aspettative del nuovo uomo. Doug Quaid infatti, che di lavoro fa l’operaio, dopo aver visto la pubblicità durante un viaggio in metropolitana, si rivolge alla Recall, agenzia che si occupa di “turismo mentale”, facendosi programmare in una vera e propria vacanza su Marte, dove impersonerà un agente segreto.
Qui termina la realtà e comincia il sogno?
Qui comincia il sogno e termina la realtà?
O sogno e realtà sono la stessa cosa?
Quesiti a cui nemmeno Freud è riuscito a dare una inoppugnabile spiegazione, e che il cinema cerca di dare fin da quando nasce, classificandosi come arte illusoria dove sogno e realtà procedono a strettissimo contatto. Così dallo stimolo mass-mediale, il nuovo uomo si ritrova proiettato in un pianeta virtuale che è appunto quello di Marte, dove si vede coinvolto in una vera storia di spionaggio con esiti catastrofici. Ma il dubbio permane: sogno o realtà?
Atto di forza prova ad esporre una provata ma affascinante risposta, non lungi da quella proposta in Videodrome, anche se in questo Cronenberg esplica il rapporto che c’è tra la televisione e la nuova carne, mentre Verhoeven propone una teoria che comprende il binomio futuro-nuovo uomo. Si percepisce quindi una sorta di generalizzazione ed ampliamento dei campi semantici analizzati e riprodotti, perché non esistono i luoghi comuni ma solo uomini conosciuti e comuni che sono vorticosamente traslati ad una realtà alternativa, che mette in risalto tutta la loro anticonformità. A causa di ciò in Atto di forza non rintracciamo pianeti mentali, ma pianeti materiali che contengono infiniti tipi di menti e corpi. Su marte vi sono mutanti, telepati, chiromanti, puttane, nani e tutto il resto, una sorta di rappresentanza multirazziale di un pianeta libero se non per il proprio respiro, per le condizioni necessarie alla vita e ovviamente sottratte dai malvagi. Sarà necessario l’intervento di Doug, che affronterà un viaggio di maturazione fra taxi robotizzati, lamiere fumanti e uomini deformi, ovvero tutto ciò che sarà la creazione del progresso e dell’avanzamento tecnologico e metallurgico. Un utilizzo spropositato e malato di elementi che oggi assomigliano ancora ad opportunità, porterà Doug a dover salvare l’umanità, senza mai capire se quello che sta facendo lo stia facendo nella realtà o in un sogno. Ma non fa comunque differenza.
Effetti speciali che valsero l’Oscar a Eric Brevig, scenografie che assumono i colori più disparati perché virati da ciò di cui sono composte, e riferimenti più o meno vaghi alle grandi teorie della fantascienza più scarsa in assoluto, quella degli anni ’70 e ’80, fatta debita eccezione di quella cerebrale di pochi registi americani. Michael Ironside si ispira proprio per questo ruolo a quello avuto in Scanners nel 1982, dove i telepati un po’ come qui, avrebbero governato il mondo. Atto di forza è un film di grande effetto proprio perché sempre supportato da significati non banali, che ancora oggi resistono per quanto riguarda l’attualità della forma con cui vengono espressi. Per questo come Videodrome fu definito da Andy Warhol l’Arancia Meccanica degli anni ’80, Atto di forza per eguale lungimiranza e futurismo, si potrebbe senza alcun rimorso definire come quella appartenente agli anni ’90.

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