MILLENNIUM – UOMINI CHE ODIANO LE DONNE di David Fincher

REGIA: David Fincher
SCENEGGIATURA: Steven Zaillian
CAST: Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer, Stellan Skarsgård, Robin Wright
NAZIONALITA’:USA
ANNO: 2011
TITOLO ORIGINALE: The Girl with the Dragon Tattoo
USCITA: 3 febbraio 2012

ON THE TOP OF THE WORLD YOU GET NOTHING DONE

Un libro, un film, un altro film. Tracce gialle qualsiasi, perché se di mezzo ci sono i nazisti e la bibbia, di questo si tratta: materiale vergine pronto per qualsiasi interpolazione. Lisbeth, da qualche altra parte, sarebbe potuta essere un’eroina: quella di un Luc Besson anni 90, quella pasticciata e scopiazzata d’una, a sua volta, ormai, scopiazzatura Bs senza supporto o rapporto – un semplice angelo vendicatore, più o meno aggraziato. Ma solo l’oltremondano rimane, in Millennium: in Fincher la reprobazione non è contemplata.

Rooney Mara è una maschera di cera e un non-ammasso di bellezza eterea, Daniel Craig una maschera di carne un ammasso di idee. Incanto e rassegnazione, scambiati, mescolati, i livelli appiattiti, né bene né male, l’emozione messa nel congelatore assieme ai clichè, un invito volutamente ambiguo: il divertissement investigativo è sepolto sotto la neve, nel bianco e nel freddo di inquadrature immobili, di ritmi periferici, allontana(n)ti; l’occhio-per-occhio è svuotato di tutto il suo patrimonio narrativo. Forza registica compiuta e padrona (quello stoicismo che splendeva in The social network, che avvicinava Fincher e Christopher Nolan): ciò che conta sono i dettagli, o, meglio, quel che vi si trova dentro, che non è il diavolo, e neppure il risultato, tanto meno la giustizia, ma il puro e semplice nulla. Farai il giro del mondo, tornerai a casa e lì non ci sarà nessuno.

UN PAIO DI STUPRI

Millennium è il compendio di tutto il Cinema di Fincher degli anni 2000, e forse anche del precedente.
Seven agiva per aggiunta, per amarezza amplificata: buio, pioggia, sporcizia e grovigli visivi, verso un climax; un corteggiamento umido e stratificante, passionale; turbolenze isteriche di Brad Pitt e la consolazione del voice over di Morgan Freeman, in realtà imposto dalla produzione, fatto sufficiente per chiedersi se ci si fosse immolati con protagonisti e regia o se in realtà si trattasse di violenza carnale seguita da una pacca sulla spalla.

Millennium risponde: un incipit di una cinquantina di secondi (loghi Columbia e MGM compresi) per accendere i cervelli alla gente, una sequenza di titoli di testa che nulla a che fare col mood del film per farglieli esplodere e il resto del film per farglici guardare dentro, per farceli girare come cavie, forse a vuoto, in quanto tali, perché è quel “forse”, somigliante più a un “no” che a un “sì” la reale conclusione.

Fincher sembra prendere script, storyboard e appunti per farli memorizzare ai suoi collaboratori e poi bruciarli per poi lui non guardarli più. Se Zodiac necessitava di costruzione per esistere, per essere la pura (semplificante ma non semplice) vicenda di un’ossessione, Millennium ha bisogno di accantonamento, quando non di distruzione. Le macerie e gli elenchi, degli avvenimenti e del giallo, della storia di Lisbeth e dell’inchiesta di Blomkvist, sono linee rette di un disegno astratto, poligoni spigolosi, combacianti e del tutto privi di referente.

L’accumularsi degli eventi non è l’assuefazione tipica dell’investigazione verso l’ottundimento dello scoprire una verità celata (un qualche dio), ma il reiterarsi della realtà (senza alcun dio), in cui gli assassini, i drammi familiari e la stessa solitudine sono solo trascurabile veicolo della loro manifestazione. Se è sempre contenuto vs forma, qui la questione è almeno raddoppiata: Millennium è la form(ul)a di una forma (Fincher) di una forma (Cinema) di una forma (la storia); l’eco che, superata la fermentazione, superato il marcire, dà un corpo morto, reale, inorganico, compiuto. Se la sceneggiatura segue qualche manuale d’istruzioni, la regia di Millennium È un manuale d’istruzioni d’una poetica che arriva a non doversi più dire, indicando il silenzio non con la parola stessa ma solo tacendo, evocandosi scena dopo scena, di scena in scena. Where is my mind, continuare a premere F5, suicidarsi e scoprire che tutto era finto.

Non servono più un Tyler Durden a guidarci in una favola metropolitana, serial killer per farci correre (di regia, non di sceneggiatura, si parla), imposizioni cronologiche come quella di Benjamin Button, o Mark Zuckerberg: il castello è da subito d’aria, lo scopo vanificato, galleggiamo ad occhi spalancati senza battere le palpebre, il percorso è già interrotto, l’illusione zittita, il baratro stabilito ed accettato; e la vere scene di stupro non sono quelle con Lisbeth e il suo tutore, ma i titoli di testa, con la loro brutale dilatazione sensoriale cui seguirà solo ovattato vagare. Tutti i protagonisti sono nessuno e rimangono nessuno. Immigrant song è l’unico ammicco.

BOY-MEETS-GIRL

Una maschera di cera e una maschera di carne, si diceva. Fincher non fa giocare visivamente Lisbeth in contrasto con gli ambienti, come d’estremo invece Paolo Sorrentino in This must be the place: si tratta d’un dark assoluto ma insieme standard, adagiato su figure come quelle dell’amico hacker unto, sovrappeso e con t-shirt dei Nine Inch Nails che già risultava arcaico in Matrix. Blomkvist non è eroe né antieroe, né carismatico né alfiere di machismo, tanto meno un omuncolo. Entrambi contenitori di disfatta, di fisicità sintetizzata, borderline opposti, rispettivamente al centro e ai confini di una società, una sotto e uno sopra. Due passe-par-tout paralleli, che si incontrano dopo quasi ottanta minuti di film. E i faldoni di documenti, gli apparecchi elettronici, la neve bianca, gli interni itterici, cento fotografie stampate, un gatto, un happy meal, le parole e i flashback valgono quanto loro, senza che vi sia uno specifico punto di emanazione.

Non c’è incedere d’un discorso sulla tecnologia, seppur sia sempre in scena e d’essa stessa sia fatto il film. Il voyeurismo non ha più bisogno d’essere spiato a sua volta. La formazione si fa non deformazione, ma pure impossibilità, gettate via una dopo l’altra: il mistery, il maturare, l’evolversi, l’amore.

Le gambe nude di Rooney Mara, dal momento in cui appaiono lontane dalla violenza, sono loro il protagonista, il punto di fuga, la speranza, nell’ipotetico innamorarsi che rappresentano, l’unico modo, non solo per concludere, ma anche per creare una vicenda, un’empatia classica. Fincher deve denudare, per far intuire una via alla vita in Millennium, per suggerire una soluzione alla distanza ineluttabile che mette in scena, per sottolineare l’indipendenza del suo film, del suo fottersene dei generi, del pubblico, dei violini, dello zucchero come dello shock.

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