DESSINS À BOIRE – Modigliani, Soutine e gli altri artisti maledetti a Palazzo Reale a Milano

Gli artisti saranno stati pure ‘maledetti’ (appellativo che poi non ci piace così tanto), ma di certo ‘benedetto’ è stato monseur Jonas Netter, che di quei ‘maudites’ raccattò le opere snobbate dai collezionisti che ritenevano degni d’esser appesi ad un muro solo i quadri dei maestri dell’Impressionismo.
E fu lungimirante, monseur Netter, che si procurò la collezione che fino all’8 settembre è esposta al Palazzo Reale di Milano e che, ad oggi, vale svariate cifre a sei zeri.

Ci investì tempo e denaro, ripose fiducia nelle stramberie di quell’arte che veniva da tutta Europa, ma che solo a Parigi aveva trovato lo spazio ideale per decanonizzarsi, per essere un unicum con la vita dell’autore e di tutto l’ambiente circostante, per raccontarne storie e visioni.
Si tratta di storie e visioni che tra le sale della mostra si avvertono come reali (forse perchè se ne può quasi toccare con mano il frutto), ben diverse dalle atmosfere alleniane tutte incanti e ‘morali della favola’ di Midnight in Paris e da quelle (che ambivano ad essere) struggenti e disperate di Modigliani, i Colori dell’Anima di Mick Davis. Ed è proprio il livornese, interpretato nel film di Davis da Andy Garcia, il grande protagonista della mostra milanese.
Suoi sono i due ritratti che aprono l’esposizione: uno è Leopold Zborovski, anche lui ebreo come Netter e Modì, il quale provvedeva a coprire le spese della vita sregolata di Amedeo; l’altra è Jeanne Hebuterne, grande amore di Modigliani e suo soggetto preferito. Guida d’eccezione la voce di Corrado Augias, che col suo commento fornisce per lo più (troppi) aneddoti su quadri e artisti.

E giù quindi con la storia di Suzanne Valadon, ottima pittrice, ma non altrettanto brava madre del più celebre Maurice Utrillo, che abbandonò per mantenere il suo ‘allegro’ stile di vita, affidandolo alla nonna che cercò di curarne le crisi epilettiche dapprima con l’alcool, poi con la ‘terapia della pittura’.

Terapia azzeccatissima, quest’ultima, perchè è grazie ad essa che oggi possediamo gli splendidi scorci di Montmartre dipinti da Maurice, incantati (ed incantanti), fotografici ma corposi, impastati, qualcosa in più dei flash impressionisti precedenti, occhio nuovo degli artisti nuovi (nel caso di Utrillo si trattò di un occhio che diventerà sempre più offuscato dall’alcolismo, che lo porterà a dipingere quasi convulsivamente ed infine alla morte).

E troviamo retaggi impressionisti, filtrati attraverso Van Gogh e Matisse e attraverso un’interpretazione/distorsione tutta personale, in Antcher -ebreo russo sbarcato a Parigi in cerca di fortuna ed in seguito in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni naziste-, i cui paesaggi sono furenti, mistici, visionari; e ancora in Kikoine, il bierlorusso impastato e coloratissimo; e, soprattutto, in quel geniaccio puzzolente di Chaim Soutine.

Scappato di casa dopo esser stato massacrato di botte dai genitori per aver dipinto il rabbino del suo villaggio lituano, va a Parigi a piedi, portandosi dietro paura e disperazione (oltre che una buona dose di parassiti che gli infestano il corpo), che camufferà re-inventandosi il look, ma che rimarranno sempre presenti nei suoi quadri: volti deliranti, terrorizzati e che terrorizzano, alberi infiammati dalle loro stesse foglie, carcasse di animali da macello.

E dall’attenzione al paesaggio, dalla ricerca di un posto -seppur tutto storto- dove stare (con la testa, s’intende), ai ritratti, alle persone, dove cercare compagnia, affetto, soldi, amore, salvezza, divertimento: è il caso di Moise Kisling, che ingigantisce gli occhi, stende ordinatamente i colori (senza perdere pastosità, ombre e volumi), che pare aver sporcato le rotondità caravaggesche. E’ limpido, allegro senza superficialità, così come era il suo carattere: serio nel lavoro, generoso, ma pieno di piglio e raffinato. Il suo ritratto di Netter, di lui sodale oltre che collezionista, introduce i visitatori alla collezione dell’alsaziano, quasi come un riservato e gentile padrone di casa che fa cenno con la mano di accomodarsi.

Ma i ritratti migliori della mostra (e non sembra azzardato dire che siano tra i migliori della storia dell’arte moderna) sono quelli del maudit Modì: linee sinuose, contorni decisi, stesura compatta e voluminosa del colore, il tipico collo cignesco e i volti allungati, che rimandano all’arte africana; in Modigliani riescono ad amalgamarsi perfettamente lo stile dei grandi italiani d’un tempo (che Amedeo conosceva perfettamente) e l’innovazione avanguardistica (ma che riesce ad uscire dalle avanguardie, o meglio a non entrarne mai a far parte, a rimanere sempre un discorso compiuto e definito), la freddezza di pose statiche e la forza espressiva dei visi, dei corpi (si pensi ai famosissimi nudi caldi, sensuali, materni). Straordinari i ritratti di Zborovski, barbuto ed elegante, tutto teso ed elettrico nel suo star fermo, di Beatrice Hastings (per un certo periodo focosa e schizzofrenica amante dell’artista) e, soprattutto, di Jeanne Hebuterne: anche lei pittrice (sono esposti tra l’altro due suoi quadri, piacevolissima parentesi nella sala dedicata al livornese), fu compagna e moglie di Amedeo, dipinta in ogni posa immaginabile e sempre, comunque, meravigliosa, seppur con addosso un perenne velo di apprensione e disperazione per la sorte dell’amato: pochi giorni dopo la sua morte (avvenuta nel 1920, aveva solo trentasei anni e Jeanne, ancora più giovane, ventidue) si tolse la vita, quando portava in grembo il figlio di Modigliani.

www.mostramodigliani.it

Condividi

Articoli correlati

Tag