IL TRONO DI SPADE

CREATA DA: David Benioff e D.B. Weiss
CAST:  Peter Dinklage, Emilia Clarke, Michelle Fairley, Lena Headey, Richard Madden
NAZIONALITÀ: USA

ANNO: 2011
STATO DELLA SERIE: in corso
TITOLO ORIGINALE: Game of Thrones 

The Starks are always right eventually – winter is coming.
This one will be long, and dark things will come with it.

Gli Stark, a dirla tutta, sono quelli che in Il trono di spade fanno, quasi sempre, la scelta sbagliata. Nonostante l’esplicito catastrofismo insito nel motto della loro casata – winter is coming –, aderiscono fieramente a valori di lealtà, onore e correttezza e finiscono per capitolare, sopraffatti da un nuovo ordine costruito su perfidia, spregiudicatezza, manipolazione. Nell’universo parallelo di Westeros (inventato dallo scrittore George R.R. Martin nella saga Cronache del ghiaccio e del fuoco e trasposto in serie televisiva per HBO) ogni stagione dura un lustro o più, finendo per coincidere con fasi politiche ed epoche storiche: l’inverno incombente, dopo molti anni d’estate, preannuncia guerra, sventure, carestia e un cataclisma indicibile dal sapore soprannaturale. È un fantasy strano, quello di Martin: del genere conserva l’ambientazione medievaleggiante, i riferimenti a draghi e stregoni, una scacchiera geograficamente dettagliata a dispiegare culture e civiltà immaginate. Ma non ci sono eroi, a Westeros, e quelli che provano ad esserlo finiscono invariabilmente malissimo. Al ciclo meteorologico e al posizionamento sulla mappa – dispositivo fondamentale del fantasy – di questo continente si àncora la definizione dei personaggi e il loro modo di partecipare al gioco dei troni. Chi è prossimo al gelo perenne (gli Stark, per l’appunto, che governano il Nord, e i Guardiani della Notte, il corpo militare preposto alla sorveglianza della Barriera di ghiaccio) opera da cassandra inascoltata o da irriducibile idealista, come se la consapevolezza della piccolezza umana finisse per offuscare irrimediabilmente la comprensione della natura (meschina) degli uomini. Di contro, chi vive nell’opulenza di un clima temperato (i ricchissimi Lannister, soprattutto, o i Tyrell) è invischiato nelle macchinazioni senza scrupoli per inseguire il potere. Cosa sia, esattamente, il potere e quanto effettivamente logori è oggetto di dibattito tra gli stessi personaggi: «Power resides where men believe it resides. It’s a trick, a shadow on the wall» spiega il “ragno” Varys, mentre tesse imperturbabile la sua rete di spie. «Power is power» taglia corto tautologicamente la perfida regina Cersei, una delle giocatrici più esperte e temibili. Ai margini dell’impero, come sempre, ci sono i leoni e le schegge impazzite: i Bruti (a sud della Barriera li chiamano “selvaggi”, loro si autodefiniscono “liberi”) e i Dothraki (che riconoscono solo forza e violenza), i White Walkers e i draghi, Jon Snow e Danaerys Targaryen.


Anyone can be killed

Il motivo del successo di Il trono di spade sta nell’impossibilità di individuare il protagonista della storia, ed è anche una delle ragioni che lo rendono un fantasy atipico. Nessuna quest tolkieniana, nessun viaggio dell’eroe, nessun percorso (fisico, metaforico, narrativo) ortodosso, ma un gruppo di personaggi (apparentemente) principali destinato a sfoltirsi e a ingrossarsi, affiancato da una miriade di comprimari e comparse che possono rivelarsi, inaspettatamente, cruciali. Nel testo letterario di partenza si avvicendano, ad ogni capitolo, differenti punti di vista (ma il narrare è sempre rigorosamente in terza persona, una voce onnisciente quanto il sole che vediamo nella sigla della serie), ma nulla, nemmeno essere una di queste prospettive, garantisce la salvezza, l’immunità, il successo. Nella trasposizione seriale, assistiamo a una dispersione centrifuga attraverso il susseguirsi di ambientazioni lontane nello spazio (e non sempre coeve nel tempo), i personaggi che si dimenano frenetici sulla mappa di Westeros, l’occhio della macchina da presa che si sposta da un punto all’altro, all’inseguimento delle loro vicende. È una narrazione che si distanzia dalle regole della serialità televisiva – complice il fatto di andare in onda su una rete via cavo, dove da tempo non si è più sottomessi alla legge della suddivisione in sei atti – e che si prende il rischio di risultare, a tratti, ostica, perdendosi nella verbosità e negli stalli dell’esasperata preparazione di un conflitto. Il trono di spade si svolge nel territorio di confine che precede un’apocalisse annunciata: gli snodi di trama e i colpi di scena conservano sempre il sapore di un lunghissimo prologo. In realtà, la serie accade davvero nei dialoghi e nell’indagine del concetto di potere (politico, intellettuale, economico, religioso, militare, intellettuale, e via discorrendo). Apparecchia una tavola di comportamenti umani paradossalmente realistica, nonostante il contesto fantastico. Una scelta, una parola di troppo, un gesto sbagliato possono rivoluzionare gli equilibri e portare all’eliminazione di qualsiasi personaggio. Soprattutto per questo, Il trono di spade provoca nel pubblico una reazione intensa, istintiva e, ovviamente, molto umana: fare il tifo. 


When you play the game of thrones, you win or you die;
there is no middle ground.

Al gioco dei troni, dunque, gli spettatori partecipano insieme ai personaggi. Si può parteggiare per il valore degli Stark, o deriderne l’ingenuità. Ci si può esaltare per Danaerys e i suoi draghi o per il fascino testardo di Tyrion Lannister. C’è persino chi si schiera con i Greyjoy, gente di mare che non semina, ma devasta, stupra e saccheggia. Se tutto può succedere, se chiunque può essere ucciso, allora si può seguire la partita con la stessa passione con cui i tifosi di calcio guardano la finale di Champions. L’armamentario iconografico, fatto di vessilli, motti, colori (incentivato ovviamente anche extra testo dalla campagna pubblicitaria e dal lavorìo del fandom), è parte fondante di questo gioco di tifoserie. Che riesce nell’impresa di coinvolgere affettivamente sia i veterani della saga letteraria (dopotutto, gli ultimi due libri sono ancora inediti, dunque nessuno sa come va a finire) sia i neofiti che si approcciano per la prima volta alla storia, e pure chi, finora, si è sempre dichiarato allergico al fantasy. Anno dopo anno (la terza stagione è iniziata in Usa il 31 marzo e arriverà a maggio in Italia), la prémiere di Il trono di spade diventa un appuntamento televisivo sempre più atteso, evocando una fruizione globale cultuale paragonabile a quella dello spartiacque Lost: non a caso, anche lì si avevano una moltitudine di personaggi, una narrazione frammentata declinata su attese e colpi di scena, un’inclusione dello spettatore nella decifrazione di un universo dettagliato. A dieci anni di distanza, però, il gioco è più consapevole, più scoperto, più smaliziato: davanti a Lost eravamo come Ned Stark, e qualcuno ci ha rimesso la testa; davanti a Il trono di spade siamo come Tyrion Lannister e come lui possiamo dire «I understand the way this game is played». O forse no?

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