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Bad guy, bad cop: RAMPART di Oren Moverman

Pubblicato originariamente il 22 maggio 2012 in Verboten!

REGIA: Oren Moverman
SCENEGGIATURA: James Ellroy, Oren Moverman

CAST:  Woody Harrelson, Sigourney Weaver, Ice Cube, Steve Buscemi
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2011

Lo scandalo Rampart resta un argomento da maneggiare con cura. Quanto meno al cinema, visto il gigantesco precedente televisivo meglio conosciuto come The Shield, che proprio da quei fatti reali assunse le sembianze di entertainment prima, configurandosi poi, assieme a OZ, The Wire, Deadwood, Soprano e Lost, come uno dei prodotti seriali capaci di cambiare per sempre regole, attese e percezioni delle produzioni catodiche a venire nell’epoca pre Mad Men. Ellroy e Moverman prendono cronologicamente le distanze dalla poliziesca tragedia greca firmata Ryan, Sutter e Mazzara: bypassando il crescendo dei fatti e allacciandosi immediatamente alle conseguenze, umane e personali, di questi ultimi, caricando la zavorra di quel che resta dei metodi corrotti e vecchia scuola delle divise di L.A., sulle robuste spalle di Dave “rape” Brown. Mossi da una simbiotica unità d’intenti, regista e sceneggiatore guardano all’eredità romanzesca lasciata da Joseph Wambaugh, quindi alle sue trasposizioni sul grande schermo, storie di vita e di strade battute da piedipiatti, pietre miliari come I nuovi centurioni o I ragazzi del coro. Richard Fleischer e Robert Aldrich però, erano e restano di ben altra pasta e spessore rispetto a Moverman, di fatto inavvicinabili al presunto epigono pena camicia di forza, nonostante l’ammirevole tentativo di quest’ultimo, per altro solo in parte riuscito, di collegare la vertigine solitaria e paranoica di Woody Harrelson alla similare spirale psicologica già mostrata in The Messenger, quindi la manifesta volontà di creare, al netto di sole due regie, una già riconoscibile linea poetica. Peccato che Moverman si affidi in fase di script ad un Ellroy imbolsito, che spara a salve, quasi fosse alle prese con l’ennesimo racconto scritto controvoglia, sorprendentemente fragile al momento di incastrare la storia di un uomo ormai solo con le (tante) storie che lo circonda(va)no. Il mosaico narrativamente sovrapposto di Io non sono qui (co-sceneggiato guarda caso da Moverman), si palesa ben presto come lontano ricordo, mera illusione della vigilia irreparabilmente tradita; sequenza dopo sequenza Rampart si sfalda, annegando nell’alcool a stomaco vuoto tracannato dal suo protagonista e andando in fumo assieme alle innumerevoli sigarette da questo consumate: ennesimo bad cop reazionario e latentemente razzista, reduce del Vietnam intento ad odiare un mondo dal quale si sente alienato ed emarginato, outsider misogino e violento come tanti se ne sono visti e come altrettanti se ne vedranno. Un involontario cliché che, per quanta appassionata sincerità trasmetta e impegno profonda nell’interpretazione attoriale, tale purtroppo resta; sorta di monade accentratrice vittima del suo stesso copione, dinanzi alla prevedibilità della quale poco o nulla può persino la regia: caratterizzata da movimenti di macchina grezzi ed essenziali, mai spettacolari ma non per questo empaticamente inefficaci, incollati come restano alla solitudine del suo vissuto interprete. Rampart occhieggia alla tradizione di certi ’70 statunitensi, perdendo il confronto già sulla media distanza non solo con i mostri sacri scomodati in avvio, ma anche con il primo Paul Haggis: in quanto colpevole della medesima sufficienza “provinciale” tipica di molti film di denuncia italiani, gli stessi che danno per scontata la preparazione dello spettatore straniero, deludendone le aspettative tramite racconti che, una volta orfani delle rispettive coordinate storico-nazionali, finiscono per risultare inevitabilmente criptici ai più, in quanto universali per sentimento solo sulla carta. Ecco che, nonostante le buone intenzioni, Rampart termina la sua corsa mestamente fuori bersaglio, non comunicando uno che sia uno dei fatti di cronaca ai quali, pur romanzato, si riferisce. Difficile comprenderlo fino in fondo se non si è americani, apprezzarlo poi diventa un’impresa, a meno che, almeno una volta nella vita, non vi sia capitato di passeggiare per le strade della Los Angeles meno raccomandabile, sul finire degli anni ’90. L’esatto contrario insomma, di ciò che accadeva con The Shield: capita la fregatura?

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