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Mostra del cinema di Venezia 2021: i migliori e i peggiori

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Alla fine di un Festival nuovamente troncato dalla pandemia, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Perché se da un lato ci arriva un panorama occidentale-mainstream dominato dalle pezze, dai rinvii e dai tappabuchi, dall’altro possiamo assaporare un Cinema ancora vivo e pulsante, che tenta – seppur fallendo – di variare, rinnovarsi, ritrovarsi, per quanto infine si debba ammettere che non è il “nuovo” ad imporsi, ma una rinnovata visione del classico. Sono difatti i film meno sperimentali, ma molto più focalizzati a brillare maggiormente.

L’Italia mostra tutta la propria poliedricità, quest’anno con pellicole estremamente differenti tra loro, legate principalmente dalla pesantezza dell’ego dei propri autori.
Se di America Latina e Freaks Out! abbiamo detto, a completare il tris è Il Buco di Michelangelo Frammartino, con un film completamente votato ad esprimere un’idea estetica che ci giunge claustrale, costrittiva e totalmente priva di spazio. Frammartino si compiace e sembra far di tutto per non lasciare spazio, vuole dettare legge e imporre un senso di ricerca che però non appare dell’umanità o perlomeno dei personaggi, ma totalmente suo.
A smarcarsi è, come spesso, Mario Martone che con Qui rido io ci regala uno spaccato biografico classico quanto coinvolgente.

E accanto a ciò, abbondano le riconferme autoriali, nel bene e nel male: il film d’apertura di Almodovar, Madres paralelas, è Almodovar al 100%, splendido, raggiante, brillante, straziante. Come quasi tutti i suoi film. non c’è nulla da rimarcare, se non il fatto che gli autori capaci di coniugare magniloquenza e apertura al pubblico siano ormai quasi tutti appartenenti alla vecchia scuola. Stesso discorso vale per Paul Schrader e il suo The Card Counter, sua classica via crucis verso una redenzione del tutto personale che, tra un esperimento e l’altro, ci riporta sulla via del tipico, dell’equilibrio, del diorama del peccato declinato questa volta in gioco d’azzardo. Ancora, è il passato che torna e ci fa notare quanto il presente non riesca mai ad essere veramente tale, con la sua evanescenza.
Discorso, come sempre, totalmente a parte per Paolo Sorrentino e il suo È stata la mano di Dio.

Nel mentre, con Un autre monde Stéphane Brizé completa il suo trittico sul capitalismo, affiancando a La legge del mercato (che rimane il migliore dei tre, più sfumato e meno diretto) e In guerra un tassello che regge soprattutto in rapporto al complesso della trilogia, narrando questa volta i piani alti ma senza troppo aggiungere al discorso. Più divertito Xavier Giannoli che sguazza in Balzac riuscendo a sorprendere col suo Illusions perdues.

E se la vincitrice Audrey Diwan (L’Événement) ci f respirare dopo quel colpo basso che fu Nomadland, Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lily Amirpour, Spencer di Pablo Larraìn, The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal appartengono a un microcosmo di ritratti puramente alla ricerca di una propria identità sia espressiva che cinematografica che caratterizzante, seppur con risultati molto diversi tra loro.

Competencia oficial di Mariano Cohn e Gastón Duprat è il film da “grasse risate” su Mubi, e lo è veramente. I due autori argentini continuano la loro crociata grottesca sui retroscena della vita artistica e questa volta – cinema che parla di cinema – spingono più che mai. Ma riuscirà Competencia oficial a smarcarsi dall’essere solo una commedia per cinefili?

E se On the Job 2: The Missing 8 di Erik Matti è il vero outsider della Mostra con il suo tour de force poliziesco da 208 minuti e Michel Franco con Sundown si riconferma un autore estremo, capace di mettere insieme affreschi squisiti e rovesciamenti irritanti e fini a loro stessi, la Netflix di Jane Campion e The Power Of The Dog, nel suo vincere per la miglior regia ci riporta con i piedi per terra: il cinema mainstream di oggi è streaming, classicismo rimescolato e, talvolta, classe.

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