BULLHEAD di Michaël R. Roskam

REGIA: Michaël R. Roskam
SCENEGGIATURA: Michaël R. Roskam
CAST: Matthias Schoenaerts, Jeroen Perceval, Jeanne Dandoy, Barbara Sarafian, Tibo Vandenborre, Frank Lammers, Sam Louwyck
NAZIONALITÀ: Belgio
ANNO: 2011
TITOLO ORIGINALE: Rundskop

DELLA BESTIALITÀ (E) DEL FATO

Cominciamo dalla fine: se nel panorama recente mi si chiedesse di indicare uno specchio dello stato della (settima) arte a livello (vecchio) continentale, dopo aver visto Bullhead non avrei difficoltà a indicare questo come l’esemplare punto di transito del cinema europeo, del suo pensiero debole sull’uomo e sulla storia, del suo contrapporsi forse stancamente alle tendenze dell’impegno palese a fare di una pellicola qualcosa di più che un momento di grazia ed estetica (vedi Una Separazione di Farhadi) e alla rinuncia a penetrare la superficie delle cose, confinandosi nel genere (vedi Drive di Refn). E non è un caso, né una coincidenza (termine che del resto ricorre potente nei dialoghi oscuri che il regista ha piazzato in bocca ai suoi personaggi), che questo film pietra di paragone, e dello scandalo, provenga da un paese alla periferia dell’esausto e decadente impero europeo, la culla del fallimento della civiltà occidentale che ha voluto ergesti a suprema e nel farlo ha provocato la catastrofe del Novecento; qui, alla periferia del concetto di nazione e del cinema contemporaneo, c’è un Belgio livido, una fucina di caos balcanizzato e babelizzante di lingue (la fiamminga e la vallona) e incomprensioni, e l’humus adatto a una storia traumatica di rimozione, negazione e annientamento dell’essere umano nella sua bestialità: la storia di Jacky – Testa di Bue – Vanmarsenille.

E’ un non meno che stupefacente Matthias Schoenaerts a dare il corpo al personaggio di Jacky, uno sconfitto dal destino, un (anti)eroe (post)romantico che con il groppo in gola ammette di conoscere il mondo del consesso sociale solo attraverso l’osservazione del comportamento dei bovini che lui alleva, gonfia di ormoni e macella senza considerarli più che un oggetto. Jacky stesso è un bestione glabro e sudato, a suo agio solo tra le maioliche di un bagno nemmeno fossero quelli i confini della sua personalissima gabbia da animale alla catena e col campanaccio al collo; una catena che gli è stata stretta addosso venti anni prima da un fato beffardo che per lui, ai tempi ragazzino, ha voluto dire la fine dell’esistenza da essere umano pulsante. La chimica degli ormoni che inietta nei glutei delle sue vacche è la stessa che regola la vita delle persone (dal ciclo mestruale alla produzione di testosterone, al surrogarsi dell’adrenalina), e Jacky, che vive nel mileu della mafia del traffico internazionale di carne da macello e di ormoni (particolarmente sviluppato in Belgio), è lui stesso un drogato di ormoni, anche se per motivi diversi da quelli che ci si aspetterebbe da una sceneggiatura più standard. Jacky degli ormoni non può fare a meno. Gli ormoni sono il suo destino, siringhe e flaconi le sue armi, sudore e scatti di umore il suo modo di disintossicarsi per quanto possibile.

Altri migliori di chi scrive hanno visto dentro al protagonista, dentro all’ammasso di carni e grugniti che lo fanno vivere sullo schermo, di questa figura quasi titanica e inerme una rappresentazione plastica quasi michelangiolesca di lotta contro il caos e l’oppressione (una riedizione de I Prigioni fiorentini, per voler essere precisi), una lotta chiaramente destinata a fallire, vista con gli occhi del contemporaneo, e proprio per questo così fascinosa. Letterariamente, invece, si potrebbe parlare di una versione istintuale e grezzamente ripulita di orpelli intellettuali di una Cognizione del Dolore gaddiana, fatta corpo e non cervello.

Scandito il ritmo tra flashback e rientri al presente, intercalate le sequenze più oscure e sordide che lo fanno classificare come brumoso noir contemporaneo alle stranianti esplosioni di humor nero a scoppio ritardato (perchè il destino – ricordiamolo sempre – scherza con tutti ma non ha il senso dell’umorismo), questo è un film che ti entra sottopelle e tocca corde troppo spesso intatte, e pur partendo da un contesto decadente e malaticcio come quello tardoeuropeo che abbiamo davanti gli occhi ogni giorno nelle cronache di un fallimento epocale come quello della politica continentale, tra Grecia e Germania, si fa cinema vivo, pulsante, di carne e sangue, di ansimanti sibili e denti digrignanti, di odori di stalla e olio motore, un cinema che non si arrende all’aspettativa, allo scontato, all’etica, ma che cerca l’originalità a tutti i costi, anche quello di sbagliare, e lo fa senza vendersi mai, quasi piangendosi addosso e a voce bassa, ché dopotutto lo sappiamo bene tutti come andrà a finire tutto questo (Occidente), perché il futuro è scritto nel passato. E nel passato di Jacky e nel nostro sta scritto che buttarsi via è la pulsione più viva che la civiltà del Novecento ci ha lasciato in eredità, e buttandosi via da se stesso, il film di Roskam riesce a toccare quelle corde marce di un cuore che l’uomo bianco e il suo fardello secolare hanno solo accantonato ma non ancora annientato. E come la tragedia greca, serve a farci sentire meno cinici, e più vivi.

Dall’incipit in soggettiva sino al finale di un’evanescenza lattea, Bullhead è un immersione nella merda di questo mondo, e la sua grandezza è nell’essere capace di abbassarti nella feccia e innalzarti nella poesia (della feccia, sempre e comunque), all’interno di una stessa scena.

Come se la feccia fosse il destino del cinema.

Come se la bestia fosse il destino di (questo) uomo.

Come se la fine fosse già qui e noialtri la si stesse a salutare con la mano, così.

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