LE PALUDI DELLA MORTE (TEXAS KILLING FIELDS) di Ami Canaan Mann

REGIA: Ami Canaan Mann
SCENEGGIATURA: Don Ferrarone
CAST: Sam Worthington, Jeffrey Dean Morgan, Jessica Chastain, Chloe Moretz, Stephen Graham
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2011
USCITA: 15 Giugno 2012
TITOLO ORIGINALE: Texas Killing Fields

IL DEMONE SOTTO LA PELLE

A quanto pare, il talento non si eredita obbligatoriamente con le maglie del dna. O lo si ha, oppure no. Non è un’abilità che può essere perfezionata, è “semplicemente” un dono. Ami Canaan Mann, figlia di Michael, torna dietro la macchina da presa a due anni di distanza da The Fields, con la speranza di uscire dal cono d’ombra di suo padre. I confronti non sono mai piacevoli né redditizi, eppure la vicenda scelta per essere rappresentata, non può non richiamare alla memoria certi titoli paterni. La regista lo sa, non è una sprovveduta e, giocandosi la carta a suo favore, utilizza furbescamente il nome di suo padre come sponsor promozionale del film.

Ispirandosi a fatti di cronaca realmente accaduti, Ami Canaan Mann affida a Don Ferrarone il compito di costruire una storia a metà tra il thriller e il poliziesco che racconti la vicenda di un serial killer abile ad uccidere giovani donne.

In una zona paludosa, infetta, malsana vive un’umanità altrettanto malata e squilibrata. Al centro di un terreno sporco e fangoso, campeggia una villetta moderna, sporca e disordinata in cui si consumano, giorno dopo giorno, le vicende di una ‘tipica’ famiglia del Texas. La madre fa la prostituta, coordinata da un pappone ignorante e ubriacone, suo figlio, mentre la piccola di casa ne paga le conseguenze. Una situazione raccapricciante che non permette sfumature (fisiche e psicologiche) né colpi di scena ma si limita a trasudare disperazione da ogni fotogramma.

Macchie di sangue disperse nel fango, corpi seppelliti nelle “sabbie mobili” del terreno, mani sporche purificate dall’acqua stagnante di un fiumiciattolo di periferia. L’acqua, elemento primario di purificazione per eccellenza, viene utilizzato per scavare il terreno, cancellare le impronte e offuscare le prove. Ma la coscienza sporca, si sa, non si lava via tanto facilmente. La regista, allora, si avvicina ai personaggi, si ferma ad analizzarli, li studia e rivela subito allo spettatore quali sono i buoni e quali i cattivi. Anche se l’abito non fa il monaco, l’aspetto (almeno in questo film) non mente. I reietti della società e gli scarti dell’umanità finiscono dritti dritti in fondo alla catena alimentare. Che lo vogliano o meno.

Una fotografia ovattata, buia, opaca, affidata all’esperto Stuart Dryburgh, accompagna tutti i protagonisti nelle loro cicliche vicende quotidiane. La nebbia, la foschia, l’oscurità e un silenzio assordante, infatti, sono gli unici compagni di viaggio di ogni personaggio. Ognuno di loro, in realtà, è spento, dentro e fuori. In una terra desolata e senza Dio (né dei), affidata alla veridicità di superstizioni arcaiche e obsolete, è impossibile trovare la minima forma di compassione umana. Ogni uomo nasconde dentro di sé una bestia che brama ardentemente di uscire.

I due poliziotti protagonisti riescono a tenerla al guinzaglio: il primo soffocandola con una rabbia manifesta; il secondo esorcizzandola con una fede gretta e ottusa. Il killer, invece, colui che uccide per il puro piacere di farlo, è l’unico che permette alla sua di uscire allo scoperto e di placare la sua sete di sangue (e di innocenza). Un mostro che si toglie la maschera e che uccide a freddo, a mani nude. Un demone sotto la pelle. E sopra di essa.

Lo spettatore, quindi, non riesce ad empatizzare con nessuno di loro, non può, non vuole. L’unico personaggio che arriva a conquistare il suo favore, sin dalla sua prima comparsa sulla scena, è quello di Little Anne, un personaggio puro, autentico, angelico. La sua irruenta voglia di vivere, nonostante la giovinezza che le è stata strappata proprio da chi l’ha messa al mondo, ricorda al pubblico che c’è sempre un motivo valido (?) per apprezzare quello che si ha, per quanto poco possa essere.

Le paludi della morte, dunque, si configura come una pellicola di contrasti, meglio: sui contrasti, sulle dissonanze e sulle idiosincrasie di ogni individuo. È un film imperfetto, difettoso, fallato, esattamente come il mondo che rappresenta.

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